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Noi coetanei dell'orrore

Michele Silenzi
La genenerazione degli anni 80 cresciuta con l’islamismo, e ci combatterà sempre. Senza appigli. Sarà con la nostra generazione lo scontro più duro, anzi, lo si è già visto che al Bataclan c’era gente della nostra età.

Siamo la generazione nata negli anni 80 e, fin da quando abbiamo coscienza, l’occidente è stato sotto attacco. La mia esperienza può essere quella di qualsiasi europeo che abbia più o meno la mia stessa età. L’11 settembre 2001 mancavano pochi giorni all’inizio del quinto ginnasio e il giorno dopo avrei baciato Giulia, la mia prima ragazza. L’11 marzo 2004 facevo il penultimo anno di liceo ed ero a casa con la varicella quando sono esplose le bombe a Madrid. Il 7 luglio 2005, appena tornato dai festeggiamenti per la mia maturità, ho trovato mia madre davanti al televisore che guardava le prime notizie in arrivo da Londra. Dove ero nel mezzo, durante tutti gli altri attentati, da Beslan a Mumbay, non lo ricordo esattamente. Il 7 gennaio 2015 era il mio primo giorno di lavoro, il terzo che cambiavo, quando hanno sterminato la redazione di Charlie Hebdo e fatto fuoco su degli ebrei che andavano a fare spesa. Ero al cinema a vedere “Spectre”, il 13 novembre 2015, durante gli attentati di Parigi.

 

Siamo noi la generazione del terrorismo islamico. Quella che ne ha subìto le immagini, quella a cui ha cambiato la percezione del mondo. E’ nella nostra generazione che l’islamismo radicale ci attacca e muove progressivamente a occidente. Lo fa con le sue ondate migratorie, lo fa a causa della pochezza dei governanti che con i nostri primi voti abbiamo eletto, lo fa con la sua marea demografica perché noi siamo la generazione che non fa, non sta facendo e non farà praticamente figli.

 

E saremo noi, nella nostra età adulta, a doverci confrontare più pericolosamente con questa minaccia crescente. Sarà con la nostra generazione lo scontro più duro, anzi, lo si è già visto che al Bataclan c’era gente della nostra età. Siamo coscienti di questo? Siamo all’altezza di questa sfida? Siamo in grado di rendercene conto? Si dice che dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva, ma io non vedo molti appigli.

 

Siamo noi che sfilavamo ancora con la kefiah palestinese durante le manifestazioni. Siamo noi che abbiamo sostituito all’odio per gli ebrei (perché l’antisemitismo proprio è sbagliato) quello per gli israeliani (perché invece il non meglio precisato antisionismo è proprio una cosa importante). Siamo noi che abbiamo manifestato in corteo portando simboli che non erano nostri ma retaggio di un’epoca più lontana del paleolitico, ovvero gli anni 70, perché il mondo si fa più complesso ed è impossibile capirlo senza nuovi parametri, senza categorie più complesse, senza una formazione che non si riesce ad avere cazzeggiando la sera tra blog vari e teorie cospirative su YouTube.

 

Siamo noi che diciamo no a tutto ciò che è violenza necessaria, sacrificio necessario. Siamo noi, la nostra individualità, che è stata modellata dai corpi che precipitano dalle torri di New York, da quelli dilaniati di Madrid, da quelli bruciati di Londra, da quelli crivellati di Parigi. Siamo stati formati da questi, anzi, sformati. Perché da un lato c’è questo orrore, questa paura più o meno cosciente che ci prende. Dall’altro c’è un disagio completo, la sensazione di essere appesi nudi in mezzo a una piazza, imbarazzati e incapacitati ad agire. Non sappiamo cosa fare, vagamente cosa dire.

 

[**Video_box_2**]Essere aggressivi? No, perché alla guerra non si risponde con la guerra. Essere in pace e non reagire? Forse, ma poi un giudice interiore ci rode. La nostra generazione cosiddetta post ideologica si trova a dover fare i conti con una delle ideologie più radicali, pervicaci e pervasive. E siamo nudi e siamo spogli. Non abbiamo armi, né materiali né culturali. Non siamo pronti a nulla perché non crediamo in nulla e per anni ci siamo cullati, con posa estetizzante o con lucida incoscienza, nel relativismo nichilista che tutto eguaglia al grado zero del nostro spirito, lasciandoci svuotati e privi di identità. Su di noi scende un velo di tristezza invincibile. Diventiamo una terra desolata, arida e asciutta, non più fertile né per partorire idee né per partorire figli. Il futuro, in un mondo così aperto, ci sembra chiuso, infatti diamo un’importanza assoluta alla quotidianità. E le parole che più mi sembrano adatte per descrivere questa sensazione di irreale sospensione e di coscienza intorpidita sono di T. S. Eliot: “Quel cadavere che l’anno scorso piantasti nel giardino, / ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno? / Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l’aiola?”. Siamo forse la prima generazione a non avere uno scopo ben definito, veniamo quasi tutti da famiglie più o meno borghesi e il raggiungimento del benessere ha un’utilità marginale decrescente date le condizioni di partenza. E’ privato di un obiettivo o scopo reale perché non supportato da alcun obiettivo di lungo termine.

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