Ma davvero si fanno ancora polemiche per le modelle troppo magre (e tristi) sulle copertine delle riviste?

Manuel Peruzzo
Le proteste della scrittrice Michele Murgia per il numero di Marie Claire di novembre. La modella sul giornale ci stia dicendo “devi essere come me”, quando in realtà sta interpretando un ruolo simbolico.
Michela Murgia non apre un magazine di moda dal 1990. La scrittrice ha intercettato una polemica dal basso nata dai commenti social in cui si criticava la copertina di Marie Claire di novembre, commentando a sua volta: “Quando cominceremo a reagire sul serio e tutte insieme alla costruzione di una simile idea di donna?”. Immediato il sostegno delle fan di Murgia sulla magrezza della modella, sulla svalutazione della donna, sulla mercificazione del corpo, sull’ideale insalubre di femminilità ospedalizzata. Tutto un darsi il gomito tra vere taglia 44 vs anoressiche, robuste e sane vs magre e certamente malate (questa cosa del trucco e della scenografia non sappiamo ancora maneggiarla, questo treno dei Lumière ci investirà).

 

Murgia ha poi corretto il tiro, troppo furba per cadere in un donna contro donna, e scritto che quell’immagine è negativa non per la magrezza della modella ma perché “Si fonda sull'estetica dell'infelicità. La morte, e quindi anche la mortificazione, che ne è la declinazione simbolica, ci fa belle” Lo scriveva senza ironia, cioè senza alludere al capolavoro di Zemeckis, e non c’è stata una Madeline Ashton a sibilare malefica: “Helen Sharp presenta un libro...'Eternamente giovane'. Eternamente giovane, giusto... ed eternamente cicciona!”.

 

L’invitante e attualissima polemica sulla rappresentazione femminile prosegue in un altro status di Murgia: "Il punto non è quindi che la modella è magra, perchè il peso di quella ragazza non è stato usato per dirci banalmente che esistono anche donne con la 38. E' usato per dirci che la passività, la fragilità fisica (in tutte le forme in cui compare in quella foto) e la tristezza sono accessori di moda al pari di jeans a vita alta e volpe blu e che potrebbero starci addosso che è una bellezza". Gli accenti e apostrofi sono tutti della scrittrice Einaudi che dev'essersi morsa la lingua per non scrivere che quest'immagine istiga al femminicidio. Il problema per Murgia non è quindi che la ragazza è magra, ma che è pallida e quindi infelice nella sua magrezza. Ma se Murgia non si rende conto che i jeans a vita alta e volpe blu non potrebbero mai e poi mai "starci addosso che è una bellezza" senza essere rinchiusi nel nosocomio più vicino, come può immaginare che quella modella non è lì per dirci "devi essere come me" ma esattamente l’opposto: "Ammirami, non sarai mai come me".

 

A una che ti contesta la magrezza della modella puoi sempre dire che c’è chi è costituzionalmente magro e non si chiamano “malati” ma “persone fortunate” con un metabolismo invidiabile. Ma come rispondi a una che tira in ballo il modo ricattatorio l’infelicità femminile messa in scacco dalla foto di una diciassettenne lolitesca? Ci chiediamo per chi si sta preoccupando esattamente Michela Murgia. Per la modella no, basta googlare il suo nome per scoprirla sorridente e nel fulcro della sua carriera; per il lettore neanche, implicherebbe considerare le donne così tonte da guardare una foto ed esserne annichilite fino a smettere di mangiare; per se stessa immaginiamo di no, e allora per chi? per un generico ideale femminile violato dall’industria che per vendere vestiti crea immaginari e atmosfere culturali che tutti, o quasi, sappiamo riconoscere.

 

Certo non si può dire semplicemente che una è troppo magra, bisogna aggiungere che la moda, la società, le sovrastrutture vogliono le donne infelici e tossicodipendenti, con il sondino sotto al naso. Alla politica di Murgia possiamo ribadire il buon senso, alla scrittrice non si può perdonare di non vivere nel mondo contemporaneo. Chissà cosa succederà quando scoprirà il servizio di Vogue con Kate Moss nelle risaie vietnamite, coi poveri che facevano da scenografia alle borse, era il 1996.

 

L’estetica emaciata, denutrita e filiforme non è di oggi ma è nata negli anni ’90, ed è una reazione alle modelle dall’aspetto vitale e sano come Cindy Crawford e Claudia Schiffer. Si chiama Heroin Chic, è appunto uno stile che un articolo del Los Angeles Times definiva così nel 1996: “Una visione nichilistica di bellezza che rispecchia le forme sciupate e i volti emaciati dei tossicodipendenti”. L’idea era fissare donne che sapevi stavano provando un orgasmo artificiale e utilizzare il contrasto tra esistenza dissoluta e abito di lusso per far risaltare quest’ultimo in un gioco di rimandi culturali, ambiguità e dichiarazioni di stile.

 

L’estetica della fragilità circola da vent’anni ma qui sembra nuova, come se i junkie boy di "Trainspotting", i servizi fotografici di Nan Goldin, "Requiem for a dream" di Darren Aronofski, Angelina Jolie in "Ragazze interrotte" e ogni scatto ufficiale e privato di Kate Moss non fossero mai esistiti. L’unica obiezione di buon senso formulabile è “ancora?”. Di solito si dice che la moda è lo specchio dei tempi, in questo caso è un poster di quando eravamo giovani. Dal momento che son vent’anni che rimandiamo la dieta al lunedì successivo direi che i magazine non hanno fatto troppi danni.

 

L’equivoco nasce proprio nel credere che la modella sul giornale ci stia dicendo “devi essere come me”, quando in realtà sta interpretando un ruolo simbolico, e ci si aspetterebbe dal lettore che sia abbastanza intelligente da cogliere il codice senza sentirsi obbligato a farsi di crack per asciugare i kg di troppo per sembrare una diciassettenne. La reazione sotto forma di commenti in maiuscolo ci dice diverse cose su di noi, più che sulla moda.

 

Non sopportiamo l’esclusione della nostra rappresentazione ("Io non sono così, le donne non sono così") e del nostro desiderio ("Il mio ideale di bellezza non è una che ha appena vomitato una carota che ha mangiato nelle ultime 24 ore"). Come se il non trovarci nelle pagine di un giornale cancellasse la nostra identità o quella delle donne, come se non fossimo autorizzati a vivere normalmente senza accusare la pressione di una diciassettenne in posa sconvolta dal magazine di un giornale che, ammettiamolo, se non l'avessimo lì evocato in un vibrante status dalla scrittrice civile non l’avremmo mai considerata, e ci mancherebbe. E' bizzarro, ma non succede mai che gli uomini si lamentino di Ronaldo sulla copertina di Men’s Healt dicendo "Ma questo non sono io, gli uomini italiani hanno la pancia, non gli addominali, e questo pacco è esagerato", o vedendo i twink da meno di sessanta kg lanciassero le copertine all’aria ammettendo sconvolti: "Ma io non ho più sedici anni! Non ho più neppure i capelli".

 

[**Video_box_2**]Il canone di bellezza è il risultato di un patto sociale, non lo si cambia con i commenti su Facebook. Non è neppure univoco, così come non esiste solo un tipo di femminilità. Nell’industria dell'intrattenimento il canone occidentale della donna bianca filiforme o lolitesco o heroin chic (Taylor Swift, Miley Cyrus, Lorde) convive con quello afro americano culocentrico, muscoloso e burroso (Kardashian, Beyoncé, Nicki Minaj). E' un continuo scontro di definizione e ridefinizione, essendo il concetto di bellezza una costruzione sociale, appunto. Però il fondoschiena di Kardashian e la vita sottile della diciassettenne Marthe Wiggers condividono un messaggio equidistante: non sarete mai come me. (A cui fanno eco le volpi: "Quest’uva è troppo magra/culona").

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