Svetlana Aleksievic

Svetlana sente le voci

Mariarosa Mancuso
La prima volta di una giornalista. Brava, puntigliosa, instancabile nell’ascoltare storie altrui, ma pur sempre una giornalista. L’inclinazione dell’Accademia Svedese per i risvolti politico-sociali della letteratura ha pescato stavolta dal mazzo la bielorussa Svetlana Aleksievic.

La prima volta di una giornalista. Brava, puntigliosa, instancabile nell’ascoltare storie altrui, ma pur sempre una giornalista. L’inclinazione dell’Accademia svedese per i risvolti politico-sociali della letteratura ha pescato stavolta dal mazzo la bielorussa Svetlana Aleksievic. Nei suoi libri – l’ultimo da Bompiani con il titolo “Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo”, ma a scoprirla è stata e/o con “Ragazzi di zinco” e “Preghiera per Chernobyl” – raccoglie le testimonianze dei reduci dall’Afghanistan, delle loro madri, degli orfani dell’Urss. Le mette in fila senza intervenire, almeno in apparenza, con un lavoro di montaggio più che di scrittura. Del resto coltiva una certezza, più volte dichiarata: chiunque, almeno in un attimo della propria vita, ha il genio del grande romanziere.

 

“Romanzo di voci”: così Svetlana Aleksievic etichetta i suoi libri, scordandosi del fatto che quel genere già esiste, non è affatto una sua invenzione. Si chiama “storia orale”, gli anglosassoni la praticano da tempo, e come tutte le cose interessanti della vita è già andata a finire in un libro, scritto da Joseph Mitchell e intitolato “Il segreto di Joe Gould”. Era costui un barbone newyorchese che prendeva continuamente appunti, con l’intenzione di dare alle stampe una “Storia orale del mondo contemporaneo”. Sarebbe stato il libro più lungo mai scritto, se fosse mai esistito (la ricerca del manoscritto avvia un’altra fantastica storia).

 

Parecchio lunga – quasi ottocento pagine – è la storia orale sulla vita dopo il crollo del comunismo, annunciata da un’altra certezza: “Solo un sovietico può capire un altro sovietico”. Perché, rubando a Charles Dickens l’incipit di “Storia di due città”: “Quello era il peggiore dei tempi, ed era il migliore dei tempi”. C’è gente che tenta il suicidio, al solo pensiero di sopravvivere all’Unione sovietica. C’è gente che attende finalmente la libertà e la verità, salvo scoprire che sono troppo pesanti da sopportare. Fa qui da sponda letteraria “La Leggenda del Grande Inquisitore” di Dostoevskij: “Non c’è per l’uomo rimasto libero più assidua e più tormentosa cura che quella di trovare al più presto qualcuno dinanzi a cui inchinarsi”. (Più o meno quel che Michel Houellebecq – meglio: i personaggi del suo romanzo “Sottomissione” – pensa dell’islam prossimo futuro).

 

“Tempo di seconda mano” è una Spoon River dei vivi: voci che si alternano, senza nomi e senza facce che aiutino a distinguere chi sta parlando. Rivoletti di frasi a volte disseminate di puntini a volte no. Capiamo l’esitazione, o l’eloquio che per l’emozione si interrompe, però i puntini di sospensione andrebbero banditi sempre e comunque, se vogliamo parlare di letteratura. Non capiamo invece l’aggettivo “cechoviano” usato a sproposito, per sbeffeggiare “Un’esistenza senza storia, nella quale sono crollati tutti i valori” (e se poi magari uno volesse cechovianamente la macchina nuova, più di soddisfazione dei grandi ideali, che male ci sarebbe?).

 

[**Video_box_2**]Per una volta, i lettori italiani non hanno accolto l’annuncio dell’Accademia svedese con un imbarazzato “Svetlana chi?”. La premiata era nel settembre scorso al Festival della Letteratura di Mantova, e il due ottobre si trovava a Ferrara, al “Week end con i giornalisti di tutto il mondo” organizzato dal settimanale Internazionale.