La difficile arte di essere buoni gregari e la fortuna (sempre più rara) dei pochi leader che sanno valorizzarli

Alessandro Giuli
A forza di essere, credersi e voler creare leader seriali abbiamo finito per smarrire l’importanza dei followers, dei seguaci autentici, quelli che non sgomitano per toglierti la primazia e che non ti dicono sissignore, pur di allisciarti il pelo, anche se spari o fai cazzate sul lavoro.

C’è stato un momento in cui Enea ha ceduto allo sconforto e non sapeva più che fare. Lui e i suoi fuggiaschi troiani erano in Sicilia, nel villaggio amico del conterraneo Aceste, e Giunone gli aveva appena tirato un brutto scherzo: tramite la fida Iride, la regina degli dèi era riuscita a invasare le donne di Ilio inducendole a dare fuoco alle navi degli Eneadi. Alcune imbarcazioni s’erano salvate grazie a un provvidenziale temporale provocato da Giove su richiesta dell’eroe, ma a quel punto era subentrato lo stallo.

 

“Il padre Enea – traduce Luca Canali –, turbato dall’acerbo evento, volgendo qua e là profondi pensieri nell’animo, dubitava, se stabilirsi nei siculi campi, dimentico dei fati, o cercare di raggiungere le spiagge italiche”. E’ il classico momento in cui un capo vacilla, può mostrarsi debole, perdere la rotta e la considerazione dei suoi uomini. Ed è in questi casi che si misura la sua capacità di ascoltare i buoni consigli dei propri seguaci, posto che ne abbia. Enea è fortunato, perché interviene il sodale Naute, sacerdote di antico ed esclusivo lignaggio minervale (“il solo che la Tritonia Pallade istruì e rese insigne per molta scienza”), il quale suggerisce di associare il dardanio Aceste alle decisioni, affidando alla sua città “quelli che sono in soprannumero”, vecchi, donne, invalidi e paurosi. Il figlio di Venere è fortunato, ad avere amici e consiglieri tanto saggi, ma è anche stato bravo a procurarseli e a valorizzarne la funzione. Nel mondo antico non andava sempre così bene, come dimostra la folta presenza di tiranni e satrapi, ma almeno il modello era giusto, se pensiamo che perfino Tinia, il vetusto Giove dei Tirreni, prima di scagliare la folgore inappellabile doveva ricevere il parere degli dèi Consenti, il consiglio dei Padri celesti.

 

[**Video_box_2**]Nella lingua dei tempi presenti si direbbe che sia Tinia sia Enea sapevano esercitare bene la loro leadership. Anche oggi è possibile farlo, ma è sempre più difficile. Sul Wall Street Journal di ieri c’era un articolo che il direttore del Foglio e io abbiamo letto contemporaneamente, in luoghi diversi. “Cla’ – gli ho scritto – ’sto pezzo andrebbe incorniciato”. Lui: L’ho appena ritagliato… è qui sulla scrivania!”. Il Wsj scrive che a forza di essere, credersi e voler creare leader seriali abbiamo finito per smarrire l’importanza dei followers, dei seguaci autentici, quelli che non sgomitano per toglierti la primazia e che non ti dicono sissignore, pur di allisciarti il pelo, anche se spari o fai cazzate sul lavoro. Perché preferiscono farsi ascoltare, magari in modo assertivo, dicendo: “Forse stiamo sbagliando… forse c’è un modo migliore per…”. E’ una fortuna, dice Ira Chaleff, consulente e autore di “The Courageous Follower”, quando un leader trae il meglio dai followers e quando i followers traggono il meglio dal loro leader, che nella più augurabile delle circostanze è un ex numero 2 riuscito. Numerose ricerche sostengono che avviene il contrario, come nel caso di un aereo che si è schiantato perché il pilota indeciso non aveva voluto ascoltare i consigli dell’equipaggio. Sarà che i capi moderni ragionano come cattivi followers, più che il fallimento d’un disegno comune temono il successo dei subalterni; e i subalterni sono spesso passivi adoratori, infidi come certi malvagi gran visir delle favole per bambini, oppure cercano di violentare la natura pur di ottenere la leadership, a volte riuscendo ma con effetti nefasti o anche solo ridicoli.

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