Ian Tattersall, 69 anni, è curatore emerito del Museo di storia naturale di New York. Nato in Inghilterra, vive da quarant’anni nella stessa casa del Greenwich Village

Gente di New York

Il signore degli ominidi

Il telefono sulla scrivania di Ian Tattersall suona in continuazione. Lui risponde, gentilmente declina la richiesta, chiede scusa e torna al calice di bianco friulano prodotto nella valle dell’Hudson, che è “un po’ più salmastro dell’originale”, ma si lascia bere. “Sai, poco fa ero a colloquio con una persona e ho dovuto aprire una bottiglia, ma domani parto per l’Europa, mi pare brutto lasciarla a metà…”.

Il telefono sulla scrivania di Ian Tattersall suona in continuazione. Lui risponde, gentilmente declina la richiesta, chiede scusa e torna al calice di bianco friulano prodotto nella valle dell’Hudson, che è “un po’ più salmastro dell’originale”, ma si lascia bere. “Sai, poco fa ero a colloquio con una persona e ho dovuto aprire una bottiglia, ma domani parto per l’Europa, mi pare brutto lasciarla a metà…” dice ridendo, mentre estrae dalla credenza un paio di bicchieri. Al telefono mi aveva detto “vienimi a trovare, ci beviamo un bicchiere di vino” ma l’avevo preso come un modo dire, invece quando si tratta di vino e fossili dell’olocene Tattersall va preso alla lettera. Ha una passione enorme per il vino e sull’esperienza intimamente umana, irriducibile alla pura chimica, dell’accostarsi al bicchiere ci ha scritto anche un libro, “Il tempo in una bottiglia” (Codice Edizioni).

 

Per un attimo sul suo volto passa lo scintillio proprio del cercatore che ha trovato qualcosa, e con voce appena più grave annuncia: “Domani alcuni colleghi daranno l’annuncio di un’importante scoperta di fossili in Sudafrica, potrebbero essere resti di una nuova specie all’interno del genere Homo, ma è presto per dirlo”. Il ritrovamento a questo punto è noto: l’ipotesi è che si tratti dell’Homo Naledi, specie comparsa sulla terra circa 3 milioni di anni fa, e non è chiaro al momento se le ossa di quei quindici esemplari appartengano davvero alla specie in questione. A sentire Tattersall non è nemmeno chiaro se sia ascrivibile al genere Homo, “categoria eccessivamente inclusiva in cui è stato messo dentro un po’ di tutto, quando invece avremmo bisogno di un’espansione del vocabolario, un nuovo tipo di classificazione”, ma di certo si tratta di un ritrovamento eccezionale: “E’ raro trovare così tanti fossili in un unico punto, e l’antica usanza di molte specie di seppellire i morti certo ci aiuta”. Tutto questo, comunque, è in linea con quello che Tattersall ha osservato e cercato di dimostrare per tutta la sua lunga carriera di paleoantropologo. Gli uomini primitivi, i nostri progenitori, non erano di una specie soltanto; erano una moltitudine variegata e vagamente ascrivibile a un’origine comune. Per milioni di anni non c’è stato un “uomo”, forse nemmeno un “homo”, ma un’immensa varietà di specie con tratti simili che abbiamo riconosciuto e ricostruito a posteriori. “L’uomo moderno è una specie unica e perfettamente riconoscibile, presenta differenze minime e tutto sommato superficiali al suo interno, me non è sempre stato così. Un ipotetico osservatore moderno dell’uomo primitivo non vedrebbe in modo distinto una specie umana, ma una congerie di specie estremamente diverse fra loro, mentre l’idea riduzionista che la gente ha in testa è quella di un’immaginaria evoluzione lineare, con stadi separati dello sviluppo che si susseguono uno dopo l’altro, dai primati fino ad arrivare a noi. Non è che un giorno una scimmia è scesa dall’albero, si è messa a camminare su due piedi ed ecco che è comparso l’uomo”, dice Tattersall. Non che l’osservazione depotenzi la scoperta sudafricana, ma l’Homo Naledi non è che uno fra i tanti.

 

Tattersall, 69 anni, è curatore emerito del Museo di storia naturale di New York. Vive nella stessa casa del Greenwich Village da quarant’anni e se c’è un angolo di mondo che considera casa è New York, anche se nella parlata si sente ancora traccia di un accento britannico con inflessioni americane e africane: “Non posso dire di essere totalmente americano perché non ho fatto le scuole superiori qui, è quello il rituale che determina il vero passaggio alla vita americana, ma questo luogo è straordinario perché nessuno qui è uno straniero”. In Inghilterra ci è giusto nato e ci ha fatto un pezzo d’università. Quando aveva tre anni la famiglia si è trasferita a Kampala, in Uganda, dove suo padre era professore universitario. Ha studiato in Kenya durante una delle varie età dell’oro della paleoantropologia, quando reperti fossili umani spuntavano un po’ ovunque nel continente e gli scienziati erano anche esploratori, cercatori di ossa che facevano a gara per mettere le mani per primi sui fossili, e una volta studiati speditamente i materiali in laboratorio facevano nuovamente a gara per pubblicare le scoperte prima degli altri. Si è trasferito di nuovo in Inghilterra per studiare archeologia e antropologia a Cambridge, per poi specializzarsi in paleoantropologia a Yale. E’ un uomo curioso, Tattersall, di quelli che fanno domande anche quando dovrebbero dare risposte, e nemmeno per un attimo si ha l’impressione di essere davanti alla gigantesca istituzione vivente di una disciplina che ha a che fare con le domande fondamentali sull’origine e la natura di noi stessi. Tutte le discipline, guardando bene, conducono da quelle parti, ma chi studia i fossili dei nostri antenati non può sfuggire a certi interrogativi: “Il desiderio di sapere chi siamo mi ha sempre infiammato, e per quel che so è una questione che riguarda tutti”.

 

Per raggiungere il suo ufficio bisogna penetrare nel museo dell’Upper West Side da un’entrata laterale, immergersi nel fiume dei visitatori, attraversare ricostruzioni di ominidi, scheletri di dinosauri, ancestrali mammiferi marini appesi ai soffitti, schivare teche e terrari, guardare di traverso esemplari di turisti italiani, infilarsi in ascensori secondari che collegano due habitat: dal marmo e vetro del museo si passa alle vecchie teche di legno termitato che contengono oggetti catalogati con cartellino havana legato con lo spago. Ci sono molte casse di legno, di quelle diventate di moda con l’estetica hipster, e scienziati in camice che lavorano su antichi reperti con strumenti misteriosi. Non c’è nulla di asettico, non è un laboratorio da film distopico ma un vivace affresco di umanità varia e antichissima. Nello studio di Tattersall, un’ampia sala circolare tutta finestre, siamo in pieno Indiana Jones. Lui, in pantaloni kaki e gilet con le tasche, sembra in procinto di partire per una spedizione archeologica in qualche paese con un governo instabile e acqua infetta. All’inizio della carriera è stato a lungo – finché le condizioni lo hanno permesso – in Madagascar a studiare i lemuri, gli animaletti con la coda a strisce che con gli uomini c’entrano più di quanto si possa pensare. Il segreto è tutto nell’enorme varietà delle specie all’interno dello stesso genere. I lemuri si presentano con una varietà di caratteristiche che è analoga a quella degli uomini primitivi, offrono dunque un ottimo modello interpretativo per gli scienziati come Tattersall che rifiutano come infondate le ipotesi di sviluppo lineare. Di recente ha raccontato questa e molte altre avventure paleoantropologiche nel libro “The Strange Case of the Rickety Cossack”, lettura estremamente più avvincente di quanto il neofita medio possa sospettare. Il cosacco rachitico è il protagonista di una disputa quasi surreale fra scienziati avvenuta quando, a metà del Diciannovesimo secolo, in un sito dalle parti di Düsseldorf hanno scoperto i resti di un essere mai visto prima, l’uomo di Neanderthal. Poco dopo il ritrovamento, i più audaci hanno formulato l’ipotesi che quello che avevano di fronte era una specie di uomo ancora sconosciuta, incontrando subito la resistenza di chi, più preoccupato di confermare i propri pregiudizi che di capire, diceva invece che si trattava di un esemplare malandato di uomo moderno, uno storpio o un disabile. Il dottor August Franz Mayer, leader ideale di quest’ultima scuola, arrivò fino a spiegare nel dettaglio la vicenda di quello scheletro. Era quello di un cosacco rachitico che attraversava la Germania al seguito dell’ampio esercito di cosacchi normodatati sulla via per la Francia, nel 1814. Lo sfortunato venne in qualche modo ferito e trovò riparo in una grotta, dove morì. Poco dopo il ritrovamento dello scheletro del cosacco rachitico, però, lo scienziato avversario George Busk ritrovò a Gibilterra un cranio che aveva tutta l’aria di essere molto simile a quello reperito in Germania. “E’ talmente simile – scrive il beffardo Busk – che perfino il professor Mayer faticherà a sostenere che un cosacco rachitico arruolato per la campagna del 1814 sia andato a morire in una fessura della rocca di Gibilterra”. Tattersall usa l’episodio per illustrare la tentazione che il pregiudizio, ciò che è già noto, offre agli uomini in generale e agli scienziati in particolare. “Capita spesso, anche in una disciplina empirica come la mia, di essere più attaccati alle proprie ipotesi che alla realtà”, dice.

 

La questione su cui lo scienziato ha speso più tempo ed energie, il punktum della sua indagine, è l’unicità umana. Che cosa rende l’uomo tale? Cosa lo distingue dagli altri animali? Ma, più precisamente, qual è il tratto assolutamente originale comparso all’interno di quella vastissima gamma di esseri che rivendicano la qualità di homo? Il linguaggio e la capacità di pensare in termini simbolici: questa è l’ipotesi. “Non siamo esseri ‘perfettivi’ – spiega Tattersall – quello che siamo non è l’esito del perfezionamento progressivo di un essere venuto prima di noi. C’è chiaramente un salto qualitativo, una differenza sostanziale che non è riducibile a nessun’altra abilità. Fra 100 mila e 200 mila anni fa è successa una cosa senza precedenti, l’uomo ha iniziato a parlare. Questo è un fatto senza precedenti, anche perché è avvenuto istantaneamente, almeno per i tempi della paleontologia. Normalmente abbiamo l’idea che le innovazioni nella vicenda umana avvengano costantemente, che per accumulazione o progressione l’uomo inventi cose sempre nuove, attivando capacità inesplorate. Non è così. L’evoluzione è un fatto sporadico, intervallato da lunghissimi periodi in cui non succede nulla in termini evolutivi, e trovo che la comparsa del linguaggio sia la vicenda più incredibile per la storia umana”. Perché la più incredibile? “E’ un salto di paradigma. Ragionare in termini simbolici e parlare sono attività che cambiano totalmente la nostra percezione di noi stessi e del mondo. Con un sistema di simboli che riflette la realtà possiamo smontare e reinterpretare, possiamo decostruire e immaginare mondi alternativi. Nessun altro animale è in grado di fare queste cose”.

 

Linguaggio e capacità simbolica: sono cose inutili, dico, titubante. Il linguaggio non è necessario alla comunicazione – tutti gli animali comunicano fra loro, senza parlare – e i simboli non producono cibo, non danno riparo dalle intemperie, non uccidono le prede. Insomma, ciò che ci rende umani non ha nulla a che fare con l’evoluzione come la intende l’uomo della strada. “E’ esattamente il punto – dice Tattersall – la condizione umana non è determinata dalla biologia. Quando abbiamo iniziato a pensare in termini simbolici siamo diventati creature diverse, abbiamo preso a pensarci e a pensare il mondo non secondo uno schema puramente deterministico. E’ successo in così poco tempo che è lecito supporre che il cervello degli uomini fosse predisposto per queste funzioni molto prima che il linguaggio comparisse. C’era la facoltà in potenza, si trattava di metterla in atto. Ma, e questo è importante, proprio per questo insisto sempre nel dire che non ha senso cercare di spiegare quello che siamo oggi con i fossili di milioni di anni fa: da quando c’è stato quel salto qualitativo l’uomo è una creatura diversa”. Per l’insistenza sulla parola, negli anni i linguisti hanno preso a interessarsi alla tesi di Tattersall. Gli innatisti chomskiani lo considerano ora lo scienziato che conferma le loro tesi dal lato paleontologico, e lui si è trovato sempre più spesso a tenere lezioni a convegni di linguistica. La prospettiva di una differenza qualitativa getta inevitabilmente anche una domanda di natura esistenziale e religiosa sull’origine dell’uomo, questione su cui si sono combattute guerre culturali mai davvero concluse. “Non sono religioso, ma nemmeno sono contrario alla religione. Posso dire che la coscienza spirituale è certamente parte dell’esperienza umana, e anche questa è possibile grazie alla nostra capacità simbolica, ma non può essere testata con un metodo scientifico”, spiega Tattersall, appellandosi alla nozione di “Non-overlapping magisteria” messa a punto dal suo collega e maestro Stephen Jay Gould. Il mondo religioso e quello scientifico non sono necessariamente in contraddizione, ma vanno indagati con i metodi adeguati.

 

Più che il timore di essere tirato per i capelli da chi vede nella sua ipotesi il segno di un creatore, Tattersall è preoccupato dagli scienziati “che non si rendono conto di quello che fanno” e vanno in giro a dire, soprattutto nelle scuole, che “la realtà è un semplice meccanismo fatto di reazioni prevedibili”. Quando invece ciò che rende unico l’uomo, la sorgente della sua irriducibilità, non era prevedibile.

 

Nella serie “Gente di New York” Mattia Ferraresi ha ritratto Bill Keller, Gregory Alan Thornbury, Olivia Bee e Cat Martino.

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