Vincenzo Caprile (1856-1936), “La piazza a Positano” (particolare)

Gli spiaggiati

Profumo di leoni al sole

Michele Masneri
E al tramonto, l’aroma della nostalgia. Nobile senza le griffe e con i suoi bellimbusti da film, ecco Positano. Un passato ancora vivo di ballerini russi, marchesi comunisti, soldati americani.

Il profumo di Positano è agrumato. Il rumore è di motoscafo, di Riva Aquarama. “Devi vedere assolutamente quel film di Vittorio Caprioli, ‘Leoni al sole’, è rimasto tutto così”, mi dice Alessandro Piperno, amante esperto dei luoghi. Un Riva campeggia sul suo strepitoso “Con le peggiori intenzioni”, romanzo non minimalista di dieci anni fa, ambientato un poco qui.

 

Il film, invece, è del 1961, è strano come tutti quelli di Caprioli; parte come una commedia leggera e poi diventa di una malinconia devastante. Il plot: una signorina del nord (Franca Valeri) è una giornalista di turismi eleganti che si imbatte in un male di vivere in camicie strette e pantaloni strettissimi e coloratissimi. Qui un gruppo di ragazzotti locali cercano rimedio alla noia e al diventare adulti tentando la conquista muliebre, possibilmente straniera e con panfilo. “E’ un film bellissimo” mi dice Piperno. “Fu scritto anche da Raffaele La Capria, l’anno successivo allo Strega per ‘Ferito a morte’, e fu scambiato per un film balneare. Mentre mette in scena l’estate di questi debosciati che però rispetto ai film del genere hanno quarant’anni”. E lo sfasamento di età rende il tono surreale-patetico. “In realtà è giocato su grandi silenzi” continua Piperno; attorno a un Philippe Leroy atletico che salta sulle rocce e ruba gioielli a dame americane succhiandoglieli durante baciamani perfetti. Intorno, dei giovani anziani che le studiano tutte per non lavorare.

 

Scendendo alla spiaggia di Positano le scenografie sono tutte lì, come i pochi Aquarama ormai in dotazione ai grand hotel. Accanto ai due leoni bronzei che vegliano sulla scalinata, c’è la Buca di Bacco, hotel-bar-ristorante dove gran parte del film fu girato. Sasà Rispoli, oggi proprietario, nel film faceva un bambino occhialuto, cui i Leoni concupivano la madre con la scusa di insegnargli il nuoto. “Io avevo undici anni e impazzivo per questa troupe che stava girando, collezionavo i carboni delle lampade ad arco, gli elettrodi, i cavi dell’elettricità, mi sentivo come il bambino di ‘Nuovo cinema Paradiso’”, dice oggi al Foglio. “C’erano cavi dappertutto, e morsetti, e se ci inciampavi prendevi la scossa. Vittorio Caprioli alloggiava qui in albergo da noi, era amico di mio padre, e passò qui l’ultimo weekend della sua vita. Si videro insieme un gran premio in televisione, una domenica, poi tornò a Napoli e morì”.

 

Il padre, in una scena iniziale, faceva – benissimo – se stesso, cioè un albergatore seccato all’ennesima richiesta di “segnare” le spese di questi insolventi fuori tempo massimo, e le loro telefonate. “Signorina mi dia Napoli diciotto-ventuno-trentotto” dice nel film Caprioli, per chiamare “Il signorino Mimì”, cioè poi Philippe Leroy. Al diniego della cameriera, intima: “Mi assumo io ogni responsabilità”, perché svegliarli la mattina, questi leoni al sole, poteva essere pericoloso.

 

“Fu un film che facemmo per prendere in giro garbatamente i piccoli bellimbusti di Positano, che erano veramente così”, mi dice oggi La Capria. “La loro unica attività era pensare ogni giorno a qualche trovata che li facesse diventare popolari”. “C’era il fratello di La Capria, Pelos, famoso per le sue mattate, aveva colorato la Grotta Azzurra di Capri di giallo con i segnalatori che si usavano in Marina, e poi aveva dipinto anche i due leoni qui d’arancio”, ricorda Rispoli junior. “Un’altra volta con un amico staccarono le cassette della posta e le buttarono in mare, e si sparsero tutte le cartoline dei turisti, in mezzo alle onde. La polizia gli dette più volte il foglio di via”.

 

I Leoni, cioè i veri leoni bronzei, “sono lì da sempre, almeno dall’Ottocento”, mi dice Fausta Gaetani dell’Aquila d’Aragona, che insieme alla sorella Raimonda ha definito lo stile Positano tra maioliche sgarrupate il giusto, limoni e bouganville, nel suo terrazzo sublime e cadente, come in una villa un po’ Downton Abbey un po’ principi di Salina, col marito psicoanalista, Massimo Ammaniti, e tanti cani.

 

I Gaetani qui son stati tra i primi ad arrivare, tramite linea matrilineare Pattison (perché a Positano forse i figli non lavorano, ma le mamme si sbattono assai), fondamentali industriali inglesi delle ferrovie, che a inizio Novecento hanno comprato tante case e una torre. E l’accoppiata Napoli-Inghilterra ha creato uno strano ibrido, dei wasp positanesi e una società a caste ancor oggi perfettamente funzionanti: ogni albergo appartiene a una famiglia strettamente locale, con molto rispetto per ranghi e quarti di nobiltà, antichità della stirpe, stelle, dotazione delle camere: e se sotto sulla spiaggia c’è la Buca di Bacco dei Rispoli, avamposto pop, su c’è soprattutto Le Sirenuse, compound di massima sciccheria; sta di fronte a casa Gaetani, in questo miglio d’oro di Positano.

 

Le scene che non furono girate alla Buca sono girate qui: in questo hotel di massimo lusso, dove angloamericani in costumi a piccoli disegni leggono in occhiali da sole tartarugati il Financial Times accanto alla piscina cilestrina stinta, e sembra di essere in un “Gattopardo” fotografato da Slim Aarons. Qui veniva in vacanza anche Bepy Sonnino, grande Gatsby ebreo del libro di Piperno, ispirato a un nonno che voleva vivere al massimo, e dunque qui. Nel libro i Sonnino prendono addirittura tutto l’albergo. “Eravamo una tribù. Twist. Bagni di mezzanotte. Ettolitri di alcol. Poker fino alle cinque di mattina. Era magnifico”. Bepy Sonnino, con scelta di campo, diagnosticato un tumore alla prostata, preferirà godere fino in fondo piuttosto che abbandonare la conquista, anziano leone al sole. “La sua morte somiglia molto a quella di mio nonno nella realtà” dice Piperno. “Gli fu diagnosticato un cancro che avrebbe messo in crisi la sua virilità, lui scelse di non curarsi e morì a sessantatré anni”.

 

Eros anziano e radica, Bepy Sonnino che sfreccia in Jaguar da Roma-centro alle Sirenuse, chissà quanto ci avrà messo (noi in Audi tre ore secche). Adesso ci sfreccia in Jaguar anche Alessandro Cecchi-Paone, giornalista e conduttore televisivo, che da poco è presidente del San Vito-Positano, la squadra di calcio locale. Ha una casa su nella città alta, e anche lui ha un ricordo di nonni vitalisti, però in 1.100. “Mio nonno, rimasto vedovo, selezionava le fidanzate portandole a Positano. Da come si comportavano qui, si vedeva se erano quelle giuste” dice adesso Cecchi-Paone. “E infatti con la seconda moglie si innamorarono qui”.

 

Cecchi-Paone ha tentato di portare un po’ di contemporaneità nel feudo anglonapoletano; provando una piccola Mykonos, con serate gay friendly al Music on the Rocks, unica discoteca di Positano, interamente scavata nella roccia, e di proprietà di un’altra dinastia, i Russo meglio conosciuti come Black (proprietari di un ristorante antico, Chez Black, della Rada e appunto della discoteca). Ma senza molto successo: senza polemiche, il feudo si è chiuso: non expedit. Così si è tornati alla normalità, e la discoteca procede in modo assai positanese, e Peppe Russo, o meglio Peppe Black, investe molto in sicurezza, e davanti a noi ha gentilmente cacciato dal privé un gruppo di turisti molto liquidi, e alticci. Non siamo mica al Cocoricò.

 

“Io questa musica non la capisco” sospira comunque Sasà Rispoli sulla terrazza della Buca. Lui ha pure un passato glorioso da dj, nella discoteca qui un tempo in taverna. “Non sanno interpretare gli umori della pista. E’ tutta tecnica. Non mettono i lenti, i lenti erano fondamentali. Una Vanoni, una Mina, era necessaria a un certo punto, sennò si scatenavano troppo. Il lento doveva favorire anche il parlare, oggi non si parla più” dice con tono esperto. “Alla Buca si scendeva a piedi nudi, c’erano solo amici, o stranieri”, dice Fausta Gaetani. “Era stupendo”.

 

“Qui su la musica rimbomba”, dice invece Carla Paravicini Sersale, dinastia delle Sirenuse, ancora più in alto, guardando i feudi, in basso, popolati dalla modernità. “Non lo capiscono che è un anfiteatro?”. L’hotel nasce come antica casa dei marchesi Sersale, e Carla sta facendo posizionare dei tendoni, perché qualche fondamentale vip pare sia stato fotografato qui, e a Positano non esiste che si violino delle privacy, re e regine e attori hollywoodiani vengono perché protetti (la regina del Belgio continua a venirci, l’anno scorso dame romane entusiaste scoprivano Richard Gere come vicino nella spa disegnata da Gae Aulenti).

 

Un Sersale, Paolo, marchese ma del Pci, fu anche sindaco per 40 anni, in un posto tradizionalmente destrissimo (prima monarchico, oggi il sindaco Michele De Lucia, massimo grossista di pesce della costiera, è a capo di una lista civica legata a Fratelli d’Italia). Padre della patria, trasformò Positano. Come raccontò Franco Sersale a Paolo Guzzanti su Repubblica, esattamente trent’anni fa: c’era stata un’epidemia di tifo perché l’acqua era assai impura, e “il generale Clark si fottette dalla paura. Andammo io e mio fratello: generale, gli dicemmo, o qui si fa l' acquedotto, o moriremo tutti, come nelle pesti del Seicento. Clark dà subito ordine fare l’acquedotto. E il paese si arricchì. Perchè Paolo, mio fratello, aveva un poco truccato le carte: aveva dichiarato che Positano era abitata da settemila persone. Invece eravamo soltanto duemila. Grazie a quel trucco da galera disponevamo di cinquemila razioni in più e con quelle pagavamo gli operai: farina in cambio di lavoro, i tubi sequestrati e finalmente acqua pulita: gli inglesi erano contenti a Positano usciva dal Medioevo”.

 

“Qui la fortuna del posto fu che fu scelto dal generale Clark, capo dell’armata alleata, come campo base”, mi dice Rispoli, e quindi molti americani tornati a casa tramandarono il verbo positanese con passaparola più efficaci di un tripadvisor. Il risultato è poi che oggi l’italiano è solo una terza lingua a Positano: prima vengono il napoletano e l’inglese (parlato bene con accenti giusti, ti dicono “sir” e “good afternoon” e non “mister” come i camerieri disgraziati a Roma).

 

Come scrisse John Steinbeck in un articolo sull’Harper’s Bazaar nel 1953, le Sirenuse sono poi le isolette al largo di Positano in seguito ribattezzate i Galli, avamposto del filone danzante positanese: già di proprietà di Massine, massimo ballerino dei Balletti russi, allievo di Daghilev, poi acquistate da Rudolf Nureyev, che la sera prendeva un Riva e si faceva portare a Napoli a fare tutte le sue cose tornando stravolto, tipo Pasolini con l’Alfa. Oggi Li Galli appartengono a un imprenditore sorrentino, Giovanni Russo, che le ha acquistate per cinque miliardi di lire e ora chiederebbe duecentocinquanta milioni di euro.

 

Nei “Leoni al sole”, Franca Valeri era finalmente portata ai Galli da Philippe Leroy, che però biecamente andava lì per altri traffici femminili. Flavia De Luise, storica parrucchiera positanese, mentre risponde in inglese perfetto a delle clienti “give my regards to your mother, dear”, racconta oggi di quando pettinava la Franca, che “voleva i capelli assolutamente lisci, quindi giù a fare questo ciuffo che lei porta ancora”. E poi una storia che sembra “Parigi o cara”, l’altro film del duo Caprioli-Valeri: “Andammo io e mia sorella con un viaggio di aggiornamento per L’Oreal. Ma erano tutti del nord Italia, di Milano, di Domodossola, perciò ci sfottevano, ci trattavano dall’alto in basso. Poi un giorno si fermò davanti al Feaubourg St. Honoré una spider guidata dal proprietario di una famosa marca di champagne, che naturalmente veniva sempre a Positano, e lui, con questa macchina lussuosissima, e il cache-col, ci fece un sacco di feste e gli altri ci rimasero malissimo”.

 

Ballerini russi, marchesi comunisti e soldati americani sono i pezzi della ricetta di Positano: che funziona benissimo, anche meglio di Capri, la rivale a venti minuti di aliscafo. Il commercio, pure, tutto diverso: niente griffe globali bensì le famigerate pezze che pendono da balconi e negozi e botteghe e il turista ci deve passare praticamente attraverso (a Positano naturalmente il vu’ cumprà non è contemplato). Le pezze pure hanno un pedigree blasonato: “Le ha inventate la duchessa Laura Carafa d’Andria”, mi dice Gaetani. La duchessa però “non ne capiva niente di quattrini, e fallì, perché confondeva i ricavi coi guadagni”, scrisse Guzzanti. “Quando incassava, spendeva tutti i soldi per sé, e alle rimostranze dei fornitori urlava: ‘Scostumati, ma come si permettono! Io m’aggio comprato le creme di bellezza a Parigi’”. La duchessa poi fallì, ma nacque il distretto del tessile da balcone positanese; saldamente in mano ai locali, perché qui a Positano, a differenza di Capri, si è evitato lo sbarco delle griffe globali. Né Gucci né Prada né Vuitton. “Della Valle ci ha provato a comprare un negozio giù in piazza” dice sempre Fausta Gaetani. “Dopo aver sentito la cifra offerta, gli hanno detto: dottò, grazie mille, questi soldi li facciamo qui noi”.

 

Rispetto a Capri, poi, qui “non ci si veste”, dice Tonino Minniti, architetto e artista. Niente maglioncini e golfini, bandite le iniziali. “Positano è come se fosse immersa in una specie di incantesimo. E’ un posto chiuso, incredibilmente asfittico, faticoso, è come un’isola greca. E’ bohémien” (Piperno). Ancora Steinbeck: “Non ce la vedo, qui, una languida turista frusciante in fresco abito bianco. Sfido qualunque signora ad arrampicarsi per le scale di Positano vestita così, per un cocktail: arriverebbe come un cencio da cucina. Non le rimane altro che arrampicarsi, da qualunque parte voglia andare. E questo basta per eliminare almeno un tipo di turisti: quelli da vetrina”.

 

Qualcosa è cambiato da allora: “Questo profumo di agrumi che senti è finto, è irrorato con i diffusori”, mi dice un’esperta, mostrando le boccette sui davanzali dei negozi. Però Positano continua a scegliersi i suoi clienti. Arrivarci rimane difficilissimo: in macchina, sulla strada da Napoli, con curve e ingorghi forse fatti apposta per rallentare l’arrivo alle visioni spaccacuore del Golfo. E poi ztl naziste, e oltre alla nostalgia, il core business dei parcheggi, multipiano, enormi, costosissimi, che danno su una vallata interna, una specie di intelaiatura o struttura marxista su cui si regge la sovrastruttura aristocratica del presepe positanese. La macchina, comunque, meglio dimenticarsela, e la nostra A3 Cabrio che qui finalmente possiamo sfoggiare con capote aperta molto ammirati, rimarrà in un proibitivo posteggio. Arrivare per mare, non è più semplice. In cabina di comando della sua unità jet Lng, il comandante Giuseppe De Gennaro manovra con difficoltà, perché “Positano non ha un molo, solo un approdo”. Appena il mare si fa grosso, lo scalo viene chiuso, perché non c’è banchina. Cioè l’aliscafo entra tra i bagnanti, i gozzi, i gommoni, le lance sorrentine. E anche qualche Riva. E nella luce del tramonto, tra l’odore di nafta, insieme a quello forse finto dei limoni, sta l’aroma della nostalgia di Positano.

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