Oceano padano

Svaghi sospetti

Mirko Volpi
“Chi va no ’n ferie, va a la Festa”: quella dell’Unità di Pandino, tra tedio, balere e rotture di balle. Da circa un mese ormai sono chiuso in un confortevole sarcofago di noia. Ma io, e anzi noi, qui a Nosadello come in tutti gli atolli dispersi nella vastità dell’Oceano Padano, non rinunciamo a opporci al nostro destino con fiacca pervicacia.

Da circa un mese ormai sono chiuso in un confortevole sarcofago di noia. Ma io, e anzi noi, qui a Nosadello come in tutti gli atolli dispersi nella vastità dell’Oceano Padano, non rinunciamo a opporci al nostro destino con fiacca pervicacia, provando sempre a far passare in qualche modo il tempo che scorre fangoso e lento come una roggia in secca.

 

Ci dedichiamo addirittura alla ricerca di svaghi, compatibilmente ai luoghi, ai costumi e all’uso ultraestensivo del termine – svaghi – che ci sembra sempre un po’ esagerato, inadatto: fondamentalmente, sospetto. Ciononostante in pieno agosto inganniamo le ore tutte uguali e l’attesa d’altro (un altro che quasi mai arriva) frequentando la regina degli eventi estivi: la Festa dell’Unità di Pandino. Che deve anche aver cambiato nome nel frattempo – suppongo –, ma non importa, resta sempre la Festa dell’Unità, la festa estiva per antonomasia (e se chiedessi alla sciura Pina se vuol venire alla Festa Democratica, lei certo mi traguarderebbe ostile e dubbiosa, e “Cusa l’è?”, direbbe, “no, no, grassie, neh, grassie…”).

 

Una volta, quando c’era ancora la Prima Repubblica, si teneva anche la Festa dell’Amicizia; che sì, magari andava bene pure lei, ma non era forse la stessa cosa: e infatti solo quella dell’Unità resiste e persiste nell’offrire quello scialo di succulente attrattive capaci di smuovere di sera dai portichetti uomini e sciure, forse loro su tutte, che fin dal pomeriggio si preparano, annunciano alle amiche il programma, aspettano col golfino sulle spalle che il marito tiri fuori la macchina dal garage. Alle sette e venti sono già seduti al tavolaccio di legno, con lo scontrino della frittura mista di pesce in mano, dieci pacchetti di grissini divorati e lo sguardo torvo al volontario che non si sbriga a portare almeno la caraffa da mezzo di vino bianco sfuso, e frizzante: come le serate qui. Sotto i tendoni bianchi che coprono la zona ristorante – uno dei due fulcri della Festa – si genera una plumbea cappa di afa, neon e zanzare, che riproduce così, e anzi moltiplica, le gradevolissime condizioni climatiche del giorno.

 

L’altro fulcro è costituito dalla balera, dove si alternano le più rinomate band di liscio lombarde, quelle trasmesse a ripetizione tutto l’anno da Radio Zeta. Davanti alla pista da ballo invasa per lo più da vecchi professionisti che si fanno tutte le feste e le sagre della provincia o anche da coppie di autoctoni che piroettano inespressivi e concentrati, le prime file di sedie sono occupate in genere da anziane che prima delle otto son già lì a presidiare il fortino del divertimento, talora – previdentemente – portandosi da casa il cadreghino, e pure una bottiglietta d’acqua naturale (e contribuendo così sera dopo sera al disavanzo di cassa, ché nulla prendono al bar, temendo oltretutto di perdere il posto allontanandosi). “Chi va no ’n ferie, va a la Festa”, sentenzia mia madre, mentre – rientrando noi pur sempre nel medesimo novero dei non partenti – osserviamo il novantenne tanghero che sta lasciando sulla pedana il corrispettivo in sudore del 30 per cento del proprio peso corporeo.

 

Intontito dall’ennesima polka magistralmente eseguita dall’orchestra Pietro Galassi, cerco diversivi e alzo gli occhi verso una torre del castello visconteo (nella cui area si svolge sempre la Festa), forse quella dove visse il più interessante artista e progettista pandinese del 900, una specie di geniale mattoide dossiano: Mario Stroppa, in arte Marius, ma ribattezzato dai compaesani Mariomàchina. La cui ironica scurmagna, cioè il soprannome, si deve principalmente al fatto che la sua idea più celebre fu la progettazione (meglio: il tentativo fallito) di un marchingegno impossibile: la macchina del “moto perpetuo” – l’ingegneristica, e perfetta perché irrealizzabile, traduzione di questo nostro eterno, inarrestabile, rassicurante oscillare tra tedio e rottura di balle.

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