Slavoj Zizek

“E' ora di uscire dal capitalismo”, dice Zizek. Per finire dove, non si sa

Federico Morganti
Filosofia da best-seller, economia da scuola materna

Se vi recate in un punto Feltrinelli, reparto “Filosofia”, e date un’occhiata alle novità, vi sarà impossibile non notare la pila di copie del nuovo libro di Slavoj Zizek, filosofo marxista e critico del neoliberismo tra i più acclamati al mondo. Il titolo è di quelli forti: “Problemi in paradiso. Il comunismo dopo la fine della storia” (Ponte alle Grazie). “Il filosofo più pericoloso d’Occidente”, “Zizek ci fa pensare l’impensabile”, sono alcuni dei giudizi che campeggiano in copertina, non lontani dalla perentoria invocazione: “È ora di uscire dal capitalismo”. Il contenuto del libro è quanto mai vago. Se c’è qualcosa in cui Zizek eccelle, sembra essere la capacità di dare l’impressione di dire tantissimo dicendo in realtà molto poco. Uso di immagini ed evocazioni, discettazione disinvolta su film di Hollywood, libera transizione da un argomento all’altro e, di conseguenza, estrema difficoltà a restare sul punto, insieme alla pretesa tipicamente marxista di mettere a nudo le altrui ideologie restandone però miracolosamente al riparo, sono alcune delle caratteristiche salienti di questo lavoro. In quello che costituisce l’ennesimo capitolo dell’eterna lotta tra capitalismo e comunismo, sembra che l’autore non capisca il primo e lasci volutamente vago il secondo.

 

“Capitalismo” – o libero mercato, liberismo, fate un po’ voi – è, in breve, una sorta di parola magica per tutto ciò che di male c’è nel mondo. L’Ungheria di Orbán, la Turchia di Erdogan, la Cina, paesi contrassegnati da una componente autoritaria, sono tutti a vario titolo sintomi di questo sistema globale che ci avvolge inesorabilmente e che chiamiamo capitalismo. Se quest’ultimo è in grado di coesistere con realtà sociali e politiche molto diverse tra loro, si accolla inevitabilmente la responsabilità di tutti i loro mali (il governo vi spia la posta? Beh, è evidentemente l’ora di uscire dal capitalismo). Che il sistema capitalistico sia la causa di questo o quel disastro, come la disoccupazione o la povertà, sono affermazioni che, come tutte le affermazioni causali, dovrebbero essere sostanziate empiricamente. Ma di una simile volgarità modernista in questo libro non c’è traccia. Quando Zizek contesta la curva di Laffer, raccontandoci che non è vero che c’è una soglia oltre la quale tasse troppo alte riducono il gettito, dovrebbe quantomeno fornire ricerche che abbiano indagato questo fenomeno e mostrato che tale riduzione non sussiste (se così è), anziché produrre astratti ragionamenti (tutt’altro che ineccepibili) su perché essa non dovrebbe avere luogo. Ostentare una dimestichezza con l’economia che non si ha, e farlo gridando ai quattro venti circa i mali che affliggono il mondo, non denota grande correttezza. Ne sia esempio l’imputare  l’inflazionismo monetario di Alan Greenspan alle sue simpatie giovanili per Ayn Rand, benché questa fosse notoriamente una vocale sostenitrice del gold standard. Siamo poi informati che la soluzione a tutti questi problemi, l’evento rivoluzionario che consentirà la “liberazione” dell’umanità dovrebbe essere pensato all’interno dell’“orizzonte” comunista.

 

[**Video_box_2**]Cosa ciò significhi è però a dir poco oscuro. Più volte incontriamo ammissioni molto chiare circa le atrocità commesse in Unione sovietica, Cambogia, Cina, ecc., ammissioni che dovrebbero tranquillizzarci circa il fatto che no, questa forma di violenza non la vogliamo. Ma se è vero che quelli, come dice Zizek, erano comunisti che tradivano le loro stesse premesse, il libro non ci spiega in cosa tale tradimento consista. I critici del comunismo dimenticano che se oggi è possibile constatare gli “orrori e fallimenti” comunisti è proprio grazie all’apertura di questo “spazio delle utopie” operata dal comunismo stesso. E benché non si possa non ammettere che “la democrazia capitalista caratterizzata dallo stato sociale risulta incomparabilmente migliore, (…) ciò che redime il ‘totalitarismo’ stalinista è l’aspetto formale, lo spazio che esso dischiude”. Insomma, aprire uno “spazio” al di fuori del capitalismo in cui sia pensabile non si sa quale utopia è un merito intrinseco, anche se ti chiami Stalin, indipendentemente da come quello spazio poi lo riempi. E fa specie leggere che una sottigliezza formale sia sufficiente a riscattare regimi sanguinari, mentre problemi circoscritti che appartengono al nostro sistema siano talmente intollerabili da rendere inutile qualsiasi tentativo di riforma.

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