L'app di SelfControl, per non accedere ai siti che possono portare a distrarsi

Fate attenzione

Mariarosa Mancuso
Ringrazio Freedom e SelfControl per aver creato il tempo”. Lo scrive Zadie Smith, nei ringraziamenti alla fine del suo romanzo “NW”, quattro personaggi e il nord-ovest di Londra a far da sfondo.

Ringrazio Freedom e SelfControl per aver creato il tempo”. Lo scrive Zadie Smith, nei ringraziamenti alla fine del suo romanzo “NW”, quattro personaggi e il nord-ovest di Londra a far da sfondo. Gli altri a cui rendere grazie sono i parenti stretti, gli amici e i lettori-cavie (“ma tutto quel che ancora non funziona è frutto della mia ostinazione”, aggiungeva uno scrittore spiritoso di cui abbiamo scordato il nome). Freedom e SelfControl sono i marchi registrati di due app per computer che tengono lontane le distrazioni. Nella maniera più banale, impedendo la navigazione per un numero di ore prestabilite (la seconda, in clamorosa violazione della propria ragione sociale, l’autocontrollo sarebbe un’altra faccenda).

 

Se la concentrazione e la forza di volontà mancano, supplisce la tecnologia. La stessa che incolpiamo per il nostro vagare di social in social, o di sito in sito, quando dovremmo fare altro. Il collega Jonathan Franzen, più primitivo e brutale, aveva riempito di colla il buchetto del computer atto a collegarsi con la rete, chissà come se la cava ora che il wi-fi è universale. “Purity”, il suo prossimo romanzo, esce a settembre, temi annunciati internet e l’identità. Una certa aria di famiglia lo lega a un saggio appena pubblicato da Matthew Crawford, con il titolo “The World Beyond Your Head: on Becoming an Individual in an Age of Distraction” (Farrar, Straus & Giroux). La distrazione sarà anche un male, sostiene Matthew Crawford, ma non è certo una novità. Chi la fa risalire ai tempi moderni e alla vita cittadina (Georg Simmel, uno dei padri della sociologia, se ne lagnava già all’inizio del Novecento). E chi invece, come Blaise Pascal, nel più remoto Seicento la riconduceva all’incapacità di starsene da soli nella nostra cameretta, da qui deriverebbe a suo giudizio ogni umana miseria. Quindi non c’è tecnologia che tenga, un modo per sfuggire alle cose che andrebbero fatte lo troviamo sempre. Quando le distrazioni erano rare, come poteva accadere nell’Ottocento, la poetessa Elizabeth Browning suggeriva la lettura delle grammatiche e dei dizionari. Più drastica ancora Simone Weil, filosofa e mistica (si suppone quindi maggiormente incline a trovare negli uomini qualche virtù, sappiamo che gli scrittori, come diceva Graham Greene “hanno una scheggia di ghiaccio nel cuore”): “L’anima ha più ripugnanza per l’attenzione di quanto il corpo abbia ripugnanza per la fatica fisica”. Al posto dell’attenzione possiamo metterci la concentrazione, la capacità di fissarci a lungo su qualcosa, la volontà di non farci distrarre da sciocchezze. Visti i presupposti, quando capiterà di vagare di sito in sito, mollando un articolo per la curiosità di leggerne un altro che pare più interessante, e di saltare a un terzo che ci farà svoltare il pomeriggio, ci sentiremo meno in colpa. Possiamo solo sperare che – come accade nella fatica fisica fatta per diletto e non per necessità – anche l’attenzione prolungata produca qualche tipo di piacevoli endorfine.  

 

[**Video_box_2**]L’ultimo e bellissimo film della Pixar – “Inside Out”, diretto da Pete Docter – ha l’idea geniale di mostrare sullo schermo i personaggini che si agitano nella testa di una ragazzina. Nella sua, e anche nella nostra. Usciamo dalla sala immaginando un condominio mentale che avrebbe fatto la felicità dei frenologi: la Gioia che vuole comandare, la Tristezza musona che guasta i ricordi, la Rabbia fumantina, la Paura che istericamente sempre si mette di mezzo, la signorina Disgusto che arriccia il naso. Ci sarebbe stata bene anche la Distrazione, che sta agli adulti come l’Amico immaginario sta alla tredicenne Riley.

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