Musical e paillette, ecco perché farebbero bene

Mariarosa Mancuso
Serviva l’orsetto Ted per celebrare i musical di Bubsy Berkeley. Nel secondo film che gli dedica il regista Seth MacFarlane – da giovedì scorso nelle sale – la torta di nozze multipiani bianca e rosa, con signorine decorative che crediamo di zucchero, all’improvviso prende vita.

Serviva l’orsetto Ted per celebrare i musical di Bubsy Berkeley. Nel secondo film che gli dedica il regista Seth MacFarlane – da giovedì scorso nelle sale – la torta di nozze multipiani bianca e rosa, con signorine decorative che crediamo di zucchero, all’improvviso prende vita. Le ballerine sono vere e sgambettanti (con stacchi di coscia, a voler far della filologia, che negli anni Trenta non erano neppure concepibili). Si staccano dal dolce gigantesco e si muovono in fantastiche coreografie.

 

La scena dura a lungo, l’orsetto che stava sul piano più alto si esibisce in tutti i numeri classici del tip tap. Gli amanti del musical applaudono, resta la curiosità di capire come lo spettatore medio del film – maschio, adolescenza prolungata, incline alle battutacce: una delle gag ripetute gira attorno a un chilum di ceramica a forma di pisello, grandezza più che naturale, ed è la volta che nessuno fuma per non finire su Instagram – reagisca al grandioso numero musicale.

 

Fantasie buone per movimentare i titoli di testa, diranno i non fan. I fan vogliosi di ripassare la storia del musical godranno la serie di documentari in onda su Studio Universal (digitale terrestre) dal prossimo 4 luglio: “Hollywood Singing and Dancing”. Si comincia con gli anni Venti, si arriva fino al 2000. Una delle puntate – con il titolo “Anni Trenta: via dalla Grande Depressione a ritmo di danza” – è dedicata appunto a Bubsy Berkeley.

 

Non era un ballerino, non era un coreografo, prima di darsi al cinema addestrava i soldati per le parate militari. Lo stile da parata gli rimase: il minimo movimento, se a farlo sono in mille, è subito spettacolo. Pretendeva in scena centinaia di ballerine: i suoi numeri sono geometrie, moltiplicate con specchi e di pavimenti lucidi. Se non erano cento ballerine, erano decine di pianoforti, anche loro messi in riga come soldatini. Se in scena c’era Carmen Miranda, via con centinaia di gigantesche banane. Quando smise di fare il regista, si dedicò alle coreografie acquatiche per i film di Esther Williams.

 

Al musical Bubsy Berkeley regalò i movimenti della macchina da presa. Prima, prendendo Broadway a modello, il punto di vista coincideva con lo spettatore in platea. E i numeri musicali un pochino c’entravano con la trama del film (sempre troppo poco, per chi non sopporta il passaggio tra il parlato e il gorgheggio nei corteggiamenti tra Fred Astaire e Ginger Rogers, o tra Debbie Reynolds e Gene Kelly).

 

[**Video_box_2**]Le puntate alternano materiali d’archivio e interviste. Forse un po’ di vecchie glorie si potevano evitare, per non dare allo spettatore l’impressione che il genere sia morto e sepolto, invece è arrivato felicemente almeno fino a “Chicago” e a “Moulin Rouge”. Una cosa è certa: il musical scintillante di paillettes era il genere che più attirava gli spettatori con pochi soldi in tasca negli anni successivi al 1929. Imparino la lezione i registi che in tempi di crisi scelgono di girare storie lacrimose, messe in scena poveramente.

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