"The Emoji Translation Project", il traduttore automatico dall'inglese al linguaggio emoticon

dall'esperanto a moby dick riscritto con gli emoji

Perché scrivere con le faccine non cambierà il nostro linguaggio

Mariarosa Mancuso
Per tre euro e qualcosa, abbiamo conquistato una copia di “Emoji Dick”, traduzione in faccine e simboletti del “Moby Dick” di Melville. Dallo stesso articolo abbiamo appreso che il traduttore folle ha dato il via a un traduttore automatico dall’inglese al linguaggio pittografico inventato dai giapponesi per arricchire mail e sms.

Quando l’abbiamo saputo per la prima volta, la reazione è stata “forse ne possiamo fare a meno”. Quando abbiamo letto la notizia una seconda volta (sulla Lettura del Corriere della Sera), abbiamo deciso che non ne potevamo più fare a meno. Per tre euro e qualcosa, abbiamo conquistato una copia di “Emoji Dick”, traduzione in faccine e simboletti del “Moby Dick” di Herman Melville. Dallo stesso articolo abbiamo appreso che il traduttore folle – Fred Benenson, per gli annali – assieme a Chris Mulligan ha dato il via a “The Emoji Translation Project”: un traduttore automatico dall’inglese al linguaggio pittografico inventato dai giapponesi per arricchire mail e sms.

 

Prima il particolare. Non si tratta di una vera traduzione, essendo la traduzione un testo sostitutivo dell’originale, a uso di chi non conosce la lingua. “Emoji Dick” ha la riga dei simboli, e sotto la riga originale scritta da Melville, senza la quale anche il più nativo e il più competente tra i fanatici degli emoji non capirebbe un accidente. Se capisse, capirebbe sbagliato: il “call” – nel citatissimo incipit “Call me Ishmael”, “Chiamatemi Ishmael” – è reso con un telefono. Neanche uno smartphone, proprio un vecchio telefono con la cornetta. Molti commenti sono stati fatti, molti interpreti si sono scervellati, ma una cosa è certa: Ishmael non voleva essere chiamato al telefono. Da qui in poi, si entra nel più assoluto delirio (con un tocco di “costruire il Duomo con i fiammiferi” o “fabbricare un tappeto usando solo pasta cruda in vari formati”). Ogni tanto troviamo una balena, questo sì. Ma il giochetto che funziona solo al contrario: se prima si legge la riga normale e poi si guardano i disegnini ci può scappare la risata.

 

Dopo il particolare, il generale. I discorsi attorno agli emoji – universalità, facilità d’uso, immediatezza – ricordano i discorsi che da sempre accompagnano i progetti di lingue artificiali congegnate per il bene dell’umanità. Con la speranza di azzerare Babele, quando per punire la superbia degli umani che volevano costruire una torre alta fino al cielo il Signore disse: “Confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”.

 

Vale per l’esperanto progettato verso la fine dell’Ottocento dal polacco Ludwik Zamenhof e per la riforma del linguaggio proposta dagli accademici di Lagado, nei “Viaggi di Gulliver” di Jonathan Swift. “Poiché le parole designano cose, sarebbe stato certo più comodo portarsi dietro tutte le cose di cui uno aveva intenzione di parlare”. L’invenzione sarebbe certamente andata in porto, aggiunge Swift, “se le donne, alleate con il popolo ignorante, non si fossero ribellate, invocando la libertà di adoperare la lingua così come facevano i nostri antenati”. I sapienti di Lagado però non si fanno intimidire: escono di casa con il loro fardello di oggetti, quando incontrano un altro sapiente estraggono le cose dal sacco, e conversano così per un’ora.

 

[**Video_box_2**]La storia delle lingue artificiali è affascinante. Se non altro perché il fallimento dei tentativi precedenti (veri o satirici che siano) non scoraggia i successori. I più fanatici non volevano solo la comodità, la semplicità, l’universalità: cercavano la lingua di Adamo, o lingua pre-babelica. Sotto sotto, coltiva lo stesso pensiero che cerca di convincerci che gli emoji sono un passo avanti, non un ritorno indietro (ebbene sì, siamo come le donne di Swift, affezionate alla chiacchiera e non alla comunicazione di servizio “passami il sale”).

 

Ci sbaglieremo, e dunque saremo additati al pubblico ludibrio in ottima compagnia con i Lumière che consideravano il cinema “un’invenzione senza futuro”. Il linguaggio degli emoji sembra fatto per finire in “Aga magéra difùra”, il dizionario Zanichelli delle lingue immaginarie (il titolo viene da una poesia – scritta in una lingua inesistente – trovata in un racconto di Tommaso Landolfi). Dopo la lingua “Dothraki” (di “Game of Thrones”) e prima del “Klingon” di “Star Trek”. Giochi fatti per diletto, non per dare una raddrizzata al mondo e al linguaggio.