Luciano Benetton

L'arte rattrappita, ridotta a coriandolo. Colpa di Luciano Benetton

Camillo Langone
Le dimensioni contano e io sono preoccupato perché le dimensioni della pittura italiana, una delle mie grandi passioni assieme al Lambrusco, al tabarro, al pesto di carne di cavallo, continuano a ridursi. La mostra “imago mundi”.

Le dimensioni contano e io sono preoccupato perché le dimensioni della pittura italiana, una delle mie grandi passioni assieme al Lambrusco, al tabarro, al pesto di carne di cavallo, continuano a ridursi. Prima c’è stata Spoleto. A Palazzo Collicola, in una mostra inaugurata a marzo e aperta fino al 31 maggio, il critico Gianluca Marziani ha cercato di fare il punto sulla pittura italiana chiedendo a numerosi artisti di mandare quadri 30x30 centimetri. Forse è il formato giusto per risparmiare soldi in trasporti, assicurazioni, allestimenti (a Palazzo Collicola non si deve navigare nell’oro, addirittura il sito internet è scaduto, presumibilmente per mancato pagamento del rinnovo). Forse è il formato giusto per intitolare la mostra “Close up”. Di sicuro è il formato giusto per testimoniare un’epoca di rattrappimento, di declassamento dell’arte italiana rispetto all’arte mondiale, di piccolo futuro che attende i nostri giovani pittori, anche quelli bravi, se non prendono e vanno all’estero.

 

Adesso c’è Torino. Siccome al peggio non c’è limite, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, fino al 21 giugno, vengono esposti 420 artisti che si sono piegati a partecipare con quadri 10x12 centimetri. Lo schermo di un iPad è molto più grande. La copertina di un libro è molto più grande. Un francobollo, ecco, un francobollo in effetti è più piccolo. L’arte ridotta a filatelia, a coriandolo, a delirio lillipuziano, è una colpa di Luciano Benetton, già industriale dell’abbigliamento ora dedito all’arte così come molti suoi coetanei meno doviziosi e meno vanitosi sono dediti alle bocce. L’importante è non definirlo mecenate, visto che i micro-quadri appartenenti alla sua immane collezione “Imago mundi”, di cui a Torino viene esposta solo una sezione italiana, di regola non vengono pagati. Far lavorare la gente gratis è un virtuosismo che riesce solo a certi ricchi: se io avessi chiesto 420 opere in dono, giustamente avrei ottenuto 420 pernacchie. Benetton ha ottenuto 420 opere. Con qualche mugugno dietro le spalle, ma le ha ottenute. E siccome per non spararsi (o per non andare all’estero) spesso bisogna raccontarsela, molti dei 420 si sono detti che la mostra alla Fondazione Sandretto farà curriculum. Come gli stagisti rassegnati a lavorare gratis: farà curriculum. Solo che molti artisti coinvolti sono ultraquarantenni, fuori tempo massimo per stage e lavoretti. Io se fossi ricco come Benetton mi vergognerei come un cane all’idea di farmi bello con tele tolte a pittori molti dei quali faticano a pagare l’affitto e a riempire il frigorifero. Ma io non sono Benetton, io non ho “una particolare apertura alla sensibilità artistica femminile”, io non sto promuovendo “un progetto democratico, collettivo e globale che guarda ai nuovi orizzonti artistici in nome dell’incontro e della convivenza”. Dove si vede come l’ideologia, in questo caso l’ideologia dell’arte sociale, morale e moralista, possa tutto: anche trasformare un Robin Hood al contrario in un campione delle magnifiche sorti e progressive.

 

[**Video_box_2**]Alla fine il problema è sempre quello delle dimensioni: perché se avesse chiesto in dono dei quadri 100x120, perfino Benetton avrebbe ricevuto qualche rifiuto. La tendenza taccagna al rimpicciolimento che noto nelle mostre e nelle collezioni, e negli studi dei pittori quando li visito, è effetto dei tempi ma anche causa dei tempi, in una spirale di insignificanza crescente. Piccolo è brutto e inefficace. Se il “Giudizio Universale” anziché nella Cappella Sistina fosse stato dipinto in un tabernacolo di campagna pochi saprebbero a che cosa mi sto riferendo. Il grido di “Guernica” sarebbe rimasto inascoltato se anziché di tre metri e mezzo per quasi otto avesse misurato 10x12 centimetri: gli schizzetti non entrano nella storia. “Imago Mundi”, che della tendenza taccagna è il caso limite, mi sembra un triste, per quanto colossale, album di figurine, una collezione di tappi di bottiglia, un progetto paracomunista in cui gli artisti dopo aver ceduto la propria opera cedono anche la propria individualità, ridotti a indistinguibile, ingiudicabile tappezzeria. Non ce n’è bisogno.

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  • Camillo Langone
  • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).