Contro l'oscurantismo sul burro, vero e genuino simbolo di eros e lussuria

Camillo Langone
La parola olio mi fa venire in mente l’olio santo. Sarà che sono uomo devoto e che le amiche di ritorno dai grandi santuari mi portano fiale di olio benedetto che ripongo timoroso, fra i rosari e i ricordi di mia madre.

La parola olio mi fa venire in mente l’olio santo. Sarà che sono uomo devoto e che le amiche di ritorno dai grandi santuari mi portano fiale di olio benedetto che ripongo timoroso, fra i rosari e i ricordi di mia madre. Di certo non le uso a scopo alimentare: versassi in padella il loro contenuto mi sentirei complice di quegli increduli che, intorno all’Anno Mille, a Trani friggevano le ostie. Glielo dissi a Luigi Caricato, oleologo massimo, che voleva scrivessi di un suo libro senz’altro meritevole: scrivere di olio mi mette a disagio, io che ho sempre paura di essere sacrilego non saprei cosa dire o come dire. Adesso poi che è arrivata la Xylella c’è pure il risvolto patetico: un elogio dell’olio può suonare funebre, un suo ridimensionamento può apparire maramaldesco.
Il burro, invece… Se l’olio è mistico, il burro è erotico, lussurioso e goloso. Lodarlo significa sposare la vita nei suoi aspetti più piacevoli e profani. Adesso magari qualche birichino immagina che stia alludendo a “Ultimo tango a Parigi” e in effetti per l’occasione mi sono andato a rivedere su YouTube la famosa scena. Ma per carità, quanto di più datato e sedativo, il caro Bernardo ha fatto di molto meglio.

 

Evidentemente al burro non si addicono gli intellettualismi, i freudismi, perché più che cultura il burro è natura. Se fosse un’opera d’arte sarebbe la “Kermesse” di Rubens, non Duchamp che gioca a scacchi. E’ un piacere tattile anziché mentale e ha a che fare col toccare, col mordere, col gustare. La campagna anti-burro che a fine Novecento ha rattristato l’alimentazione occidentale non poteva che partire dall’America puritana, il gastronomicamente corretto non poteva che svilupparsi nella patria del politicamente corretto. Ma dove si alza l’acqua si alza anche la barca, proprio dagli Usa arrivano gli studi che smentiscono, non in parte, in toto, la precedente demonizzazione dei lipidi, e penso al gran libro di Gary Taubes “Perché si diventa grassi (e come fare per evitarlo)” che spiega come a far scattare l’insulina e a far crescere la ciccia siano solo ed esclusivamente gli zuccheri, fruttosio compreso, amidi compresi. Il problema è costituito dalla pasta, dalla pizza, dai dolci, finanche dalla frutta zuccherina, invece i grassi non c’entrano nulla, sono soltanto un capro espiatorio. Il burro non fa ingrassare, l’olio non fa ingrassare, nemmeno lo strutto fa ingrassare (a cosa serve lo strutto nella cucina del 2015? Nel resto del mondo non so ma a Parma è indispensabile per friggere la torta fritta. Che, non volevo dirlo ma devo dirlo, quando è fritta nel più delicato degli oli extravergine diventa piombo nello stomaco, mentre usando l’inquietante grasso di maiale si fa leggera leggera). Queste cose in Italia i migliori nutrizionisti le sanno, gli italiani comuni non le sanno, gli italiani comuni sono sempre attardati e abbindolati e pensano che il burro faccia aumentare il colesterolo e che aggiungendo la parola bio a una margherita o a una pastasciutta non si corre più il rischio del diabete. Tutto un medioevo di superstizioni, tutta una nebbia di oscurantismi destinata a diradarsi col presente rinascimento del burro al cui principio ci sono le cento iniziative di Brazzale il Magnifico, un industriale e non un artigiano perché il burro è come il lambrusco, per farlo buono servono macchine e organizzazione e quindi numeri, soldi.

 

[**Video_box_2**]Non è un discorso valido per l’intero comparto agroalimentare, non è vero che Carlo Petrini ha sempre torto: esistono vini affascinanti e formaggi favolosi che solo contadini e pastori sanno produrre. Solo che, per motivazioni piuttosto tecniche, il rinascimento del burro non ha e non può avere nulla di rustico o di slow, e passa da capitani d’impresa coraggiosi e da cuochi stellati non conformisti come Davide Scabin, Marianna Vitale e soprattutto Davide Oldani che non si limita a mettere il burro nel pesto, lo va pure a dire. Guadagnandosi critiche al limite dell’aggressione. Leggendo su internet il relativo putiferio ne ho ricavato che: 1) il candido burro è davvero la bestia nera del gregarismo gastronomico, se Oldani avesse dichiarato di fare il pesto con il wasabi avrebbe ottenuto più comprensione; 2) in Italia l’accezione di tradizione è mediocrissima e quindi riferita alle abitudini di mamma o di zia: peccato che il burro nel pesto sia un’opzione nel “Talismano della felicità” (edizione 1949) e addirittura un obbligo nella “Cuciniera genovese”, testo fondante del 1863. Prima di digitare su internet bisognerebbe studiare. E prima di afferrare l’oliera bisognerebbe ascoltare Bugo, il cantautore di Novara: “Hai capito cosa io voglio / non è certo pasta al pomodoro / con coerenza e con l’orgoglio / pasta al burro è il mio oro”.

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  • Camillo Langone
  • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).