Mani pulite raccontata da Alberto Sordi e poi nella serie “1992”. Brividi

Guido Vitiello
Andiamo, non pretenderete mica che io prenda sul serio una fiction in cui Marcello Dell’Utri cita a memoria l’anonimo medievale della “Nube della non conoscenza” nel bel mezzo di una riunione di Publitalia?

Andiamo, non pretenderete mica che io prenda sul serio una fiction in cui Marcello Dell’Utri cita a memoria l’anonimo medievale della “Nube della non conoscenza” nel bel mezzo di una riunione di Publitalia? In cui Piercamillo Davigo, con due occhialoni da ragionier Filini e una vocina santimoniosa, sussurra al giovane poliziotto intemperante che “noi non prendiamo scorciatoie, noi siamo la legalità”? In cui Accorsi, pubblicitario ex sessantottino, improvvisa uno spot elettorale declamando una pagina di “Petrolio” di Pasolini, dono dello stesso Dell’Utri? Grazie al cielo “1992” è finita, e possiamo tornare a occuparci di cose serie. Ora, com’è noto, in Italia l’unica cosa seria è la commedia.

 

Apro “Il cervello di Alberto Sordi” (Adelphi), versione espansa di un vecchio libro di Tatti Sanguineti sullo sceneggiatore Rodolfo Sonego, e corro alle pagine che riguardano “Tutti dentro”, il film del 1984 che ha fama di essere una profezia di Mani pulite. Se qualcuno non lo ha visto, glielo rovino io: Sordi è un magistrato che eredita una grande inchiesta sulla corruzione da un anziano consigliere che gli raccomanda, citando Talleyrand, pas trop de zèle. Ma lui di zelo ne ha molto, spicca centinaia di mandati di cattura, mette dentro politici, faccendieri, imprenditori, massoni, uomini di chiesa e di spettacolo, finché il suo metodo fondato sul sospetto generalizzato non gli si ritorce contro, lo trovano a cena con due indagati e finisce in manette.

 

“Quando l’estate dello scorso anno decidemmo di fare un film sull’amministrazione della giustizia nel nostro paese”, scrisse Sonego sul Corriere della Sera nel 1984, “pensavamo, da buoni umoristi, di aver scelto la via del paradosso, implicita nello stesso titolo ‘Tutti dentro’. Nei mesi che seguirono, mentre lavoravamo alla stesura del copione, le cronache televisive che accompagnano le nostre serate, con i lunghi pellegrinaggi di persone ammanettate, hanno ridotto sempre più, fino ad annullarlo, lo scarto tra paradosso umoristico e vita quotidiana, tra fantasia e realtà”. Venne il 1992, e Sonego fu tempestato di telefonate. Ai giornalisti disse che la sua era una profezia fino a un certo punto, perché c’era già stata la P2, e che comunque a inquietarlo più di ogni altra cosa era il “regime del terrore continuo”.

 

Vale la pena rivedere quel film un po’ sgangherato, non tanto per verificare la tenuta della profezia, quanto per apprezzare lo sforzo visionario che Sonego e Sordi impiegarono nel dar vita a un tipo di magistrato ancora ignoto alle cronache. Lo assemblarono pezzo per pezzo, come Frankenstein. Gli diedero i boccoli del ministro De Michelis, nonché la sua passione per le discoteche; nei modi professionali, però, ne fecero l’esemplare del giudice “bocca della legge”. Sapeva dialogare vezzosamente con i giornalisti sulle scale del tribunale, è vero, ma avrebbe salvaguardato il segreto istruttorio anche sotto tortura. Perfino il suo nome era un cadavre exquis non privo di genio, Annibale Salvemini, incrocio tra il condottiero cartaginese che voleva marciare sull’Italia con i suoi elefanti e l’uomo politico battagliero che scrisse il “Ministro della malavita”. Ecco, Mani pulite fu più simile alle guerre puniche o a un nuovo Risorgimento? E l’attrito tra il funzionario e lo showman, quali mutazioni generò nella figura pubblica del magistrato?

 

[**Video_box_2**]Uno vede “Tutti dentro”, e ancora si fa domande come queste; vede “1992”, e al massimo si chiede che libri hanno letto gli sceneggiatori, e come. La fiction di Sky vuol mettere i brividi, ma alla prova degli anni ci apparirà integralmente comica; il film di Sordi e Sonego faceva ridere nel 1984, ora fa tremare. Si dice spesso che la formula della commedia è: la tragedia, più il tempo. Questo sarà forse vero altrove, in Italia vale l’esatto contrario. Qui la formula della tragedia è: la commedia, più il tempo. Lo aveva ben chiaro Ennio Flaiano, quando scrisse che nel nostro paese la forma più comune di imprudenza è quella di ridere, ritenendole assurde, delle cose che poi avverranno.

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