Falcone, 27 anni dopo le bombe restano le macerie dell'antimafia

Il 23 maggio del 1992, a Capaci, l'attentato che uccise il magistrato, la moglie e tre agenti della scorta. La commemorazione a Palermo tra defezioni e polemiche contro la retorica e le passerelle elettorali

Riccardo Lo Verso

L'ultima novità investigativa sulla strage di Capaci, che ha il sapore amaro della beffa, si deve al catanese Maurizio Avola. Mica un pentito di primo pelo, ma uno storicizzato. Ad Avola è tornata la memoria e ventisette anni dopo le bombe, venticinque dopo le sue prime dichiarazioni, si è ricordato dell'artificiere americano spedito in Sicilia dalla famiglia Gambino per dare chissà quale contributo all'eccidio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.

 

È la giostra dei pentiti che allontanano dalla verità. Nel giorno in cui torna a riempirsi l'aula bunker, dove per iniziativa di Falcone fu celebrato il Maxiprocesso, sarebbe opportuno chiedersi quale giustizia sia stata garantita ai martiri e ai loro parenti.

   

Per una volta si lasci in tasca il santino di Giovanni. In molti non aggiungono neppure il cognome "Falcone" per rimarcare un rapporto confidenziale, vero o presunto, con il magistrato ammazzato dalla mafia.

  

Per il massacro ci sono trentasette ergastoli definitivi inflitti a mandanti ed esecutori materiali, tutti agli ordini di Totò Riina. Nel 2008, però, un altro pentito, Gaspare Spatuzza, ha spiegato che nella ricostruzione mancava un pezzo decisivo. Mentre alcuni capimafia dichiaravano guerra allo stato, i boss Graviano del potente mandamento di Brancaccio se ne stavano con le mani in mano. Impossibile. Ed infatti non è andata così, e sono arrivati nuovi ergastoli.

  

Non è finita. La ricerca dei mandanti occulti non si è mai fermata. Le procure di mezza Italia non li hanno ancora trovati, seppure li abbiano cercati con insistenza.

 

Se davvero a piazzare le bombe non fu solo la mafia forse sarebbe il caso, una volta e per tutte, di applicare il metodo Falcone per scovare tutti i responsabili. Falcone, che non fece certo carriera in magistratura, aveva un chiodo fisso: trovare le prove. Mentre si difendeva dai nemici, e pure dagli amici, ci mise un attimo a sbugiardare quel Giuseppe Pellegriti che indicò in Salvo Lima il mandante degli omicidi di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il rigore di Falcone non vacillò di fronte a quelle suggestive accuse.

  

Non è andata così per Vincenzo Scarantino, il pentito fasullo che per due decenni ha tenuto per mano una stola di magistrati prima di essere dichiarato inattendibile. Oggi si parla di clamoroso depistaggio nelle indagini sulla strage di via D'Amelio. E l'aggettivo serve per evitare che ci si concentri sulla distrazione di massa che ha colpito chi doveva cercare la verità e invece ha creduto allo Scarantino pensiero.

 

Sono crollati i processi. Alle macerie della giustizia si sono aggiunte quelle dell'antimafia, travolta da scandali e inchieste. I simboli sono caduti uno dopo l'altro.

 

Palermo e l'Italia ricordano il sacrificio dei martiri. In città arrivano le massime cariche istituzionali per partecipare alla giornata della memoria voluta da Maria Falcone, sorella del magistrato. E si fa la conta di chi non ci sarà. Hanno declinato l'invito il presidente della Commissione regionale antimafia, Claudio Fava, che non ha alcuna voglia di presenziare a una “cerimonia grottesca”, così l'ha definita, dove i ministri non siciliani vengono a spiegare la mafia ai siciliani che la subiscono da decenni. Non ci sarà il governatore Nello Musumeci. “Troppo veleno”, dice. Non ci saranno una serie di sigle come Arci, Anpi, Centro Impastato, che al grido “basta passerelle” hanno fatto sapere di non gradire la presenza del ministro dell'Interno Matteo Salvini. Ecco, di una cosa non si sente proprio il bisogno. Passi pure la retorica, che appare inevitabile, ma il clima da campagna elettorale sarebbe troppo.

 

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