Andrea Ballarini (foto Facebook Bea Café)

Andrea Ballarini e il Bea Café, la sua finestra aperta su Roma

Stefano Ciavatta

In una città data sempre per spacciata sui binari del “non succede mai niente, è già successo tutto”, il Bea di Ballarini è stato uno dei pochi autentici spazi di incontri culturali per lasciare raccontare cose, ritratti, persone, idee

Del perché ci fosse in sala un cavallo giocattolo proprio a ridosso delle poltrone degli ospiti, non lo sapremo mai, o forse stava lì per ricordare a tutti che gli incontri del Bea nascevano per gioco, il gioco delle conversazioni, del racconto a microfono aperto, il piacere di illustrare con parole e immagini gli altrui giochi, raffinatissimi, pop, stracult, non importa: accanto al cavallo sbarazzino e silente sono transitati scrittori, sceneggiatori, registi, giornalisti, musicisti, cultori di vario genere.

 

 

 

Bisogna rendere onore al Bea Café di via Giano Parrasio, la creatura di Andrea Ballarini, un salone ricavato da un ex garage riconvertito a open space aziendale dalla creative community KleinRusso, un café di cui Ballarini è stato direttore artistico fino al 2017, un posto incastonato nei bastioni di Monteverde ma underground nello spirito, infatti contava sul passaparola, la più genuina delle pubblicità, grazie al quale nel 2013 riuscii a intercettarlo nel mare magnum romano di localini “vorrei ma non posso”. Tre le regole: ingresso gratuito, rigorosamente di martedì sera, rigorosamente con aperitivo offerto.

 

 

In una città data sempre per spacciata sui binari del “non succede mai niente, è già successo tutto”, il Bea di Ballarini è stato un unicum capitolino, un luogo dove con spirito fogliante e la miscela personale di brillante garbo e sometimes canini affilati, Ballarini aveva messo in piedi uno dei pochi autentici spazi di incontri culturali per lasciare raccontare cose, ritratti, persone, idee e non per piantare bandierine per tornaconto personale, e quindi lontano abissi da parrocchie e parrocchiette.

 

Insomma al Bea una volta er Piotta svelava che il rap de Roma era nato sotto gli occhi di quella vecchia signora elegante e borghese del quartiere Trieste Salario, la volta dopo Gaetano Castelli disquisiva di scenografie e costumi del sabato sera nazionalpopolare tra Mina, Carrà e Sanremo; il cronista di razza Fabio Isman raccontava le città ideali d’Italia e le loro utopie urbanistiche, Giampiero Mughini confessava le sue case-mondo, spesso sottoposte alla verifica esistenziale dei traslochi, e ancora le piccole lectio magistralis di memorie intime vanziniane e i bienni cruciali di Paolo Morando.

 

L’eclettismo scherzoso ma sorvegliato di Andrea Ballarini metteva in calendario la guida pettegola al Settecento francese di Sgorbati Bosi e la biografia schizzata dell’outsider Gianni Miraglia, collega copy e compatriota lombardo, l’epopea irrefrenabile di Giancarlo Fusco restituita alla luce da Gianni Bisiach e il manifesto del recensore incappucciato Valerio M. Visintin, cronista gastronomico mascherato per essere senza macchia.

 

Più di una sera mi sono ritrovato dall’altro lato del pubblico. Ad Andrea era piaciuta la l’avventurosa storia editoriale di “Se questo è un uomo” di Primo Levi, ma soprattutto voleva tenere il focus su Roma, la città che lo aveva adottato e di cui, dalla feritoia del suo sguardo sornione, amava veder illustrati sulla graticola del Bea pregi, difetti, risorse e  luoghi comuni. Mentre tutti puntano il compasso creativo nel Pigneto, Ballarini aveva aperto la sua finestra su Roma “oltretevere”, come avrebbe detto Silvio Negro.

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