Giuliano Amato e Gianni Agnelli. “Siamo sempre stati governativi”: dal Senatore all’Avvocato è il sigillo della Fiat come azienda di sistema (foto archivio LaPresse)

La voce dei padroni

Stefano Cingolani

Cosa ha spinto i vertici di Assolombarda a dialogare con Luigi Di Maio? L’eterna vocazione della borghesia a inseguire un partito di riferimento

Sdoganare, smussare, cooptare; in mancanza di meglio. Per tutto il Novecento la borghesia italiana ha inseguito il sogno di un partito di riferimento se non un vero partito in proprio. Non potendolo realizzare, ha cercato di condizionare quel che l’offerta politica di volta in volta faceva trovare sul mercato. Per lo più forze conservatrici, ma non sempre, perché l’antipolitica fermenta proprio nel terreno che si è fatto concimare ben volentieri dai politici. E’ toccato a molti in tempi recenti e adesso sembra arrivato il momento del Movimento 5 stelle. L’incontro di Luigi Di Maio con l’Assolombarda, la più importante delle lobby confindustriali, e i commenti del presidente Carlo Bonomi al quale il leader grillino ha fatto “una buona impressione”, danno corpo all’approccio entrista e conciliatorio. Del resto lavora a questo scopo il Corriere della Sera, già prima dell’arrivo di Urbano Cairo e ancor più con il nuovo editore che ha aperto ai pentastellati gli schermi de La7.

 

I commenti di Carlo Bonomi al quale il leader grillino ha fatto “una buona impressione”, danno corpo all’approccio entrista e conciliatorio

E i contenuti? Come fanno i maggiori esponenti dell’Assolombarda a trovarsi in sintonia con partiti che vogliono ripristinare l’articolo 18 e azzerare la riforma delle pensioni o mettere lo stato al centro di una “economia circolare” dove prevale la decrescita felice? “Abbiamo alcune differenze”, ha concesso Bonomi, ma soprattutto c’è la convinzione che i contenuti seguiranno, come le salmerie dell’esercito per Charles de Gaulle. Piero Melograni nel suo libro “Gli industriali e Mussolini”, ha spiegato molto bene che anche negli anni Venti la Confindustria coltivava la stessa illusione, poi si trovò a fare i conti con quota 90 e la grande depressione, fallirono grandi banche e industrie come l’Ansaldo o l’Alfa Romeo, infine arrivò persino l’autarchia. Antonio Gramsci parlava di un “sovversivismo delle classi dirigenti italiane” facendo riferimento ai legami pericolosi con il fascismo nascente. Melograni sosteneva che i grandi patron di allora erano mussoliniani più che fascisti, si pensi ad Alberto Pirelli, ai Feltrinelli e agli elettrici che allora avevano un ruolo guida all’Assolombarda o allo stesso Giovanni Agnelli, monarchico e giolittiano, che restò forse il più distante dal regime.

 

La Fiat era già grande e potente, uno stato nello stato, la definì Mussolini, ma non era ancora lo snodo centrale tra classe politica e capitalismo come avvenne invece nel secondo dopoguerra. “Siamo sempre stati governativi”: dal Senatore all’Avvocato è questo il sigillo dell’azienda di sistema. Gianni Agnelli era un uomo della Prima Repubblica, diranno molti commentatori, ma solo dopo la sua morte. Con Tangentopoli perse ogni orgogliosa diversità, come del resto accadde al suo grande antagonista, il Partito comunista. Con il nuovo andazzo, comunque lo si voglia chiamare, non c’è mai stata sintonia e “non si ritroverà più nei canoni incerti della cosiddetta Seconda Repubblica che prenderà forma senza il suo apporto”, sostiene lo storico Giuseppe Berta. Il rapporto con Silvio Berlusconi nasce ambiguo e via via si fa conflittuale. Pur sempre affascinati dall’uomo forte, gli Agnelli non hanno creduto in Berlusconi, nonostante Giuliano Urbani, allora tra gli assistenti dell’Avvocato, sponsorizzasse la “discesa in campo”. Era l’autunno del ’93; Gianni, ormai sotto assedio anche da parte della magistratura, non era in grado di favorire una soluzione alternativa. Più tardi pronunciò la mefitica frase “se vince vinciamo tutti, se perde perde solo lui”. Invece, il Cavaliere vincerà e sarà la Fiat a perdere l’egemonia sul padronato.

 

Le cose non vanno meglio con il disordinato centrosinistra. Romano Prodi per l’Avvocato resta un inguaribile democristiano. Massimo D’Alema un inossidabile comunista. Il primo viene considerato poco affidabile, il secondo viene apprezzato perché anche lui in qualche modo un uomo forte ma resta pur sempre sull’altra sponda. E’ Umberto Agnelli, semmai, a dare fiducia a Prodi che conosceva dai tempi della sua disavventura come senatore democristiano e dell’Arel, il pensatoio tecnocratico da lui fondato.

 

Dopo quasi un secolo, quel che resta del grande capitale è di nuovo indeciso tra sovversivismo dall’alto e corporativismo dal basso

Dalla seconda metà degli anni 90, la politica, per la prima volta, vorrebbe fare a meno della Fiat. Lo vuole Berlusconi per il quale, anzi, la conquista di un ruolo apicale al posto di Agnelli è il coronamento di una vita. Lo vuole un centrosinistra dove i buoni rapporti con la Fiat passano attraverso i sindaci di Torino, ma che sogna una emancipazione dell’economia italiana dalla egemonia Fiat. Entrambi gli schieramenti, d’altra parte, rappresentano interessi diversi e contrapposti a quelli torinesi: il popolo delle partite Iva e gli industriali del nord per la destra, i sindacati conflittuali, le cooperative e le piccole imprese del centro Italia per la sinistra. Mai come negli anni in cui la Fiat è sull’orlo di crollare, tra il 2001 e il 2004 si scatena la polemica sugli aiuti di stato. Prima era stato un cavallo di battaglia della sinistra, soprattutto la più radicale. Adesso diventa la bandiera della destra che contesta tutti gli aiuti ricevuti. Ma la legge bronzea del consenso indurrà sia Berlusconi sia Prodi a erogare ancora dei sostegni, sia pur inferiori a quelli di un tempo.

 

Nel corso degli anni si sente ripetere il refrain contro la destrutturazione del sistema, la rissa, l’inconsistenza di un ceto politico sempre considerato inferiore a quello precedente. La Fiat guidata da Cesare Romiti ha finanziato la Lega degli esordi e ha dato spago prima alle picconate anti sistema di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica che dalle colonne della Stampa recitava la parte del folle amletico, poi ha guardato con gusto alla campagna qualunquistica contro la casta politica. Oggi il Romiti novantenne inneggia a una spallata e dice che se fosse stato a Torino avrebbe votato per i grillini. Come succede a tutti gli apprendisti stregoni, le forze incautamente scatenate possono prendere il sopravvento.

 

La fine della mediazione torinese tra capitale e stato, aveva già avuto una manifestazione chiara nel 2000, quando il presidente della Confindustria era stato eletto contro il candidato Fiat: ma in quella occasione era stato determinante lo schieramento di Romiti per Antonio D’Amato contro Carlo Calleri. La mossa veniva letta come un regolamento di conti del vecchio manager isolato dai nuovi gestori della Fiat. In realtà si trattava di una vera svolta che rispecchiava i nuovi rapporti di forza, ma anche la trasformazione profonda del capitalismo italiano dove le grandi famiglie ormai al tramonto passavano via via la mano. Anche quando nel 2004 Luca di Montezemolo, un uomo della scuderia Agnelli, oltre che presidente della Ferrari, vince la corsa per la presidenza della Confindustria, dovrà stare attento a scrollarsi di dosso l’etichetta Fiat. Nel marzo 2006 organizza un convegno a Vicenza con l’intento implicito di sfilarsi da Berlusconi per avvicinarsi al centro-sinistra che con Romano Prodi si appresta a vincere le elezioni, Berlusconi interverrà a piedi giunti mostrando chiaramente il consenso che riscuote tra la base degli imprenditori. Una doccia gelata che raffredda ogni entusiasmo politico: tra tira e molla, Montezemolo rifiuta di “scendere in campo” nelle elezioni del 2008 contro il Cavaliere.

 

La Fiat continua a giocare un ruolo politico di primo piano a Torino. Si crea un feeling con il sindaco Sergio Chiamparino, un ex comunista sia pur moderato. Il destino di un’immensa area come Mirafiori, ormai svuotata pressoché completamente (restano in produzione le Carrozzerie, ma solo in parte) e dal valore potenziale molto grande, è una questione strategica. Ma non solo. Si tratta di gestire la riconversione della ex capitale dell’auto, evitando che finisca come Detroit. Al quartier generale del Lingotto sono d’accordo con questa impostazione e badano che a guidare Torino non vengano forze ostili. Scaduto il mandato di Chiamparino, così, la Fiat guarda di buon occhio a Piero Fassino con il quale c’era una consuetudine, sia pure su versanti diversi, che durava dal 1980 quando Fassino seguiva proprio la Fiat alla Federazione del Partito comunista.

 

La sconfitta dell’ex segretario del Pd nel 2016 coglie di sorpresa anche la Fiat, ormai maritata con la Chrysler, eppure alla vittoria di Chiara Appendino e del Movimento 5 stelle non è estranea almeno una parte dell’industria torinese. Il padre, Domenico, è un ben noto ingegnere che ha lavorato a lungo alla Fiat ed è diventato numero due nella Prima Industrie, azienda che si occupa di laser controllata dal presidente di Confindustria Piemonte, Gianfranco Carbonato; la figlia dopo la laura alla Bocconi ha svolto il ruolo di controller alla Juventus, suo marito è un imprenditore. Insomma la sindaco copre il fianco del capitale pur avendo raccolto sotto le sue ali i No Tav e altri pezzi dei movimenti anti-capitale.

 

Dalla seconda metà degli anni 90, la politica (sia Berlusconi, sia il centrosinistra) per la prima volta vorrebbe fare a meno della Fiat

Nel corso della storia, più volte gli Agnelli hanno cercato di favorire la nascita di una formazione politica terza, né cattolica né social-comunista, per molti versi trasversale, nettamente opposta alla sinistra, ma anche alla destra populista, nazionalista o fascista. Valletta puntò sul suo amico Giuseppe Saragat che spaccò il Psi per creare un partitino filo americano, Gianni Agnelli sul Pri di Ugo La Malfa, liberale progressista oltre che fortemente atlantico. Ma un partito della borghesia non è mai nato.

 

Il declino del berlusconismo risveglia la vecchia tentazione. E molti uomini vicini alla Fiat cominciano a lavorare fin dall’estate del 2011 all’ipotesi di una lista Monti con l’arrière pensée che possa nascere un nuovo centro-destra post-berlusconiano per bilanciare una sinistra vista vincente e al populismo in marcia verso la destabilizzazione politica del paese. Anche Monti ha una lunga storia con la Fiat. E’ stato non solo nel consiglio di amministrazione, ma nel comitato strategico fino al 1993 quando si dimise all’improvviso. Un anno dopo andò a Bruxelles come commissario al Mercato interno indicato dal primo governo Berlusconi. Quelle dimissioni coincisero con uno dei momenti più difficili per il gruppo torinese perché i suoi massimi vertici vennero accusati dai magistrati di Mani pulite per aver pagato tangenti a Craxi allo scopo di assicurarsi i lavori della metropolitana milanese.

 

I rapporti tra l’economista e l’Avvocato restano buoni, ma indiretti, mediati dal Corriere della Sera. Gli otto anni a Bruxelles conferiscono al professore bocconiano uno standing internazionale che sarà decisivo nel momento in cui matura, nell’estate del 2011, il collasso del governo Berlusconi. Non si può dire che il Lingotto abbia influenzato la scelta di Giorgio Napolitano (ammesso che lo volesse e lo potesse). E tuttavia, una volta fatta, scatta di nuovo la scintilla. La campagna elettorale comincia di fatto il 20 dicembre nello stabilimento di Melfi. Quel giorno ci sono tutti, a cominciare da John Elkann e da Marchionne il quale in quella fase svolge un ruolo politico attivo in Italia. Si candida con Monti Alberto Bombassei, presidente della Brembo, azienda che fornisce i freni alla Ferrari, membro del board di Fiat Industrial. Per gestire la Rai come direttore generale, Monti sceglie Luigi Gubitosi, già dirigente della Fiat prima di passare ai telefonini. Il professore si assume l’onere di portare l’Italia fuori dal baratro finanziario in cui era precipitata nel 2011, ma in politica passa come una meteora. Matteo Renzi sembra incarnare di nuovo il paradigma dell’uomo forte e appassiona subito Sergio Marchionne che lo sostiene apertamente, salvo poi mollarlo esprimendo tutta la sua delusione dopo la sconfitta al referendum costituzionale del dicembre 2016.

 

E adesso? La Fiat ha perso il Corriere della Sera, l’antico giornale della borghesia, ma Elkann ha sorpreso tutti con la mossa del cavallo, entrando nel gruppo la Repubblica-Espresso al quale ha portato la Stampa, il giornale di famiglia, e il Secolo XIX di Genova che apparteneva alla famiglia Perrone (quelli dell’Ansaldo). Lo ha fatto per mollare i mass media? Non sembra, non solo perché nel frattempo ha acquistato il controllo dell’Economist, ma perché tutto lascia capire che nel nuovo gruppo voglia contare, eccome. Ha imposto Calabresi come direttore della Repubblica e sono andati a vuoto i tentativi di Carlo De Benedetti di piazzare una mina con la nomina a condirettore di Tommaso Cerno che ha poi mollato per candidarsi nelle liste del Pd.

 

Valletta puntò sul suo amico Saragat, che spaccò il Psi, Agnelli sul Pri di Ugo La Malfa. Ma un partito della borghesia non è mai nato

Non sappiamo come andrà il braccio di ferro tra l’Ingegnere e i suoi figli accusati dal padre di essersi prestati alla strategia di Elkann, ma certo è che De Benedetti ha sempre giocato un ruolo di primo piano nella politica, ritagliandosi un spazio diverso da quello di Agnelli e in aperta contrapposizione con Berlusconi. Anziché condizionare dall’esterno sognando un partito della borghesia o scendere in campo con una propria formazione politica, ha voluto fare da burattinaio. Si è sempre dichiarato elettore del Partito repubblicano finché è esistito. Ha reso accettabile il Partito comunista italiano sposando la linea di Enrico Berlinguer contro Bettino Craxi, ha fatto da sponda alla Dc di Ciriaco De Mita in funzione sempre anti-socialista, ha sostenuto l’operazione di Romano Prodi con l’Ulivo e poi la nascita del Partito democratico del quale disse di aver preso la tessera numero uno, ma non ha mai amato Renzi, considerandolo tutto sommato un Craxi giovane. Quanto a Berlusconi, la storia economica e politica degli ultimi trent’anni potrebbe essere scritta come un lungo duello tra il Cavaliere e l’Ingegnere quasi come i due ufficiali francesi nel romanzo di Joseph Conrad, solo che in questo caso l’origine del conflitto non è affatto avvolta nel mistero.

 

Dopo quasi un secolo, una dittatura, una monarchia e due repubbliche e mezzo, quel che resta del grande capitale è di nuovo indeciso tra sovversivismo dall’alto e corporativismo dal basso, mentre la contrattazione pressoché continua degli interessi immediati fa perdere la percezione degli interessi di fondo. Il partito della borghesia sfuma in lontananza, di lui non resta nemmeno un partitino.