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La guerra dei passaporti

Daniele Rielli

“Altro che passaporto austriaco, abbiamo la carta d’identità verde”. Com’è la vita nell’“enclave italiana” in Alto Adige, tra privilegi del welfare e segregazione etnica

“Però non sembri tedesco…”. Se avessi ricevuto un Bitcoin per ogni volta che qualcuno mi ha rivolto questa frase da quando sono nato (o, più logicamente, da quando esistono i Bitcoin) ora avrei probabilmente un patrimonio pari al prodotto interno lordo di un paese di medie dimensioni. Fra i motivi per cui non sembro un tedesco c’è quello, abbastanza rilevante, che non sono tedesco. E ciononostante sono oggetto di quest’osservazione da circa 35 anni perché sono nato e cresciuto in Alto Adige, e più precisamente a Bolzano, sorta di enclave italiana della provincia. Già questa specificazione “enclave italiana” va però nettamente al di là delle informazioni di solito in possesso degli abitanti di altre regioni riguardo ai destini della più montuosa, krapfenmunita e occasionalmente odiata delle provincie italiane. Nell’immaginario collettivo siamo una provincia abitata unicamente da Schützen in vestito tipico tirolese e fucile Mauser a tracolla, intenti a dare fuoco a dei tricolori mentre approfittano di indebiti vantaggi fiscali. L’esistenza in loco di circa 110 mila italiani, in larga parte discendenti diretti di meridionali o di poveracci emigrati dalle zone più depresse del nord est, gente spesso in grado di parlare solo un tedesco di fortuna, è un fatto largamente sconosciuto.

   

Devo ammettere che probabilmente sembrerebbe marginale anche a me, se non fosse che questa minoranza dimenticata è stata l’habitat dei primi vent’anni della mia vita.

  

La popolazione della provincia, all’ultimo censimento del 2011 era così composta: tedeschi 69,41 per cento, italiani 26,06 per cento, ladini 4,53 per cento. Nella città di Bolzano le proporzioni sono pressoché perfettamente invertite: il 73,8 per cento dei residenti sono italiani e il 25,52 per cento tedeschi. In pratica a parte qualche compare a Merano e a Bressanone, siamo tutti lì. Naturalmente quando scrivo “tedeschi” si fa per dire, perché sulla carta tutti e tre i gruppi linguistici sono formalmente cittadini italiani. Almeno per il momento.

   

A Bolzano però ci siamo sempre chiamati così: italiani e tedeschi (i ladini, oltre a essere pochi, sono concentrati tutti in alcune valli) oppure, nella versione vernacolare dispregiativa, Walschen e Crucchi. In ogni caso “appartenente al gruppo linguistico italiano” (o tedesco) è un’espressione che nessuno sano di mente utilizzerebbe in una conversazione nel mondo reale. Nella città i quartieri sono chiaramente distinti, quelli dove abitano quasi solo italiani – le periferie – e quelli più centrali dove la presenza tedesca è decisamente più forte. Fra i miei ricordi infanzia c’è il fatto che, nella parrocchia del quartiere popolare dove sono cresciuto, le messe in italiano si tenevano nella chiesa vera e propria, in grado di ospitare più di 400 persone, quelle in tedesco invece in una piccola cripta con una capienza di qualche decina. Dimenticavo, noi e i “tedeschi” frequentiamo sin da bambini scuole diverse, le scuole miste sono vietate per legge e non certo per volere degli italiani. A patto di essere in grado di pagare il folle prezzo del metro quadro sul mercato immobiliare bolzanino esiste comunque la libertà di abitare dove si vuole. Sembra scontato ma alla fine di questo pezzo potrà sembrarvi un fatto un po’ meno ovvio.

   

L'unico episodio di compattezza elettorale italofona che si ricordi fu il referendum contro il cambio di nome di Piazza della Vittoria

In questi giorni il governo austriaco ha proposto la concessione della doppia cittadinanza ai sudtirolesi. Anche se si sono subiti più o meno tutti la lezioncina sugli italiani dell’Alto Adige, i miei amici di Roma – la città dove vivo – mi chiedono quindi se sto davvero per ricevere il passaporto austriaco. La risposta è no, e non solo perché non sono più residente a Bolzano, ma perché nella dichiarazione di appartenenza linguistica (ma siete decisamente liberi di leggere “etnica”) che tutti noi altoatesini dobbiamo compiere allo scoccare della maggiore età ho risposto: italiano. Quindi l’offerta per me non vale. Così come se fossi rimasto a vivere lì mi sarebbero stati preclusi circa il 70 per cento dei posti di lavoro pubblici, e la quasi totalità dei ruoli dirigenziali nelle aziende controllate dalla mano provinciale, nelle privatizzate e nelle aziende titolari di concessioni pubbliche. I posti di lavoro all’interno di un’ampia fetta dell’economia altoatesina sono infatti ripartiti su base etnica, con una proporzione basata sui risultati censimento. La lottizzazione su base sostanzialmente razziale di fatto è legge dello Stato, pardon, della provincia. Questa situazione, in fondo ben più scandalosa del regime di autonomia fiscale, va avanti ormai da parecchi anni nell’indifferenza più totale del resto della nazione, tanto che una crescente fascia di popolazione italiana locale è arrivata a vedere il meccanismo proporzionale come una forma distorta di tutela. In soldoni fra la mia gente c’è chi dice “Se non ci fosse la proporzionale non prenderemmo nemmeno quei tre posti su dieci, ci cancellerebbero del tutto”. Conoscendo la tenacia della politica sudtirolese e l’indifferenza del resto d’Italia, l’argomento per quanto surreale non è più deboli. Se inizialmente il meccanismo della proporzionale etnica è stato trattato su una base politica (con l’eco delle bombe sullo sfondo) e ratificato nello statuto di autonomia, oggi l’ampiezza del suo campo di applicazione aumenta all’aumentare delle competenze della provincia autonoma. In seguito al cosiddetto “accordo di Milano”, la provincia di Bolzano ha preso ad usare le sue ampie disponibilità monetarie per “scaricare” di costi lo Stato centrale in perenne crisi di liquidità, acquisendo in cambio sempre nuove competenze (un solo esempio non esaustivo: le poste). Sostanzialmente sfrutta la generosa ripartizione delle entrate fiscali di cui gode grazie alle norme concesse da Roma, per appropriarsi di quote di sovranità dello stesso Stato centrale. Per correttezza va detto che ci sono regioni autonome che trattengono ancora più tasse e non ridanno indietro niente, nemmeno con questo meccanismo di shopping della sovranità. Ad ogni modo il risultato concreto di questa spoliazione, oltre che un rapido avvicinamento al traguardo del libero Stato del Sudtirolo, è un aumento delle fasce di società sottoposte a quella che era nata come discriminazione positiva, compensativa e transitoria, e si è fatta invece sistema imperituro. L’etnia come fulcro della società, nel XXI secolo globalizzato, nel centro d’Europa. In un contesto come questo il passaporto austriaco appare più che altro una boutade anacronistica, oggettivamente sarebbe una forma di retrocessione. Fra gli altoatesini italiani con cui sono cresciuto scorre un po’ di malcontento ma l’immagine – principalmente televisiva perché noi bolzanini siamo prima di tutto italiani mediatici – del resto del paese è talmente tragica che tutto sommato una certa sudditanza ai tedeschi seppur dentro i confini italiani, non sembra ai più il peggiore dei mali. In fondo il sistema di discriminazione etnica garantisce un certo numero di posti fissi, e il posto fisso si sa, è dio. Un culto che in fondo è anche la certificazione ultima che sì, siamo davvero italiani.

  

Mitologica presso il nostro clan è ad esempio la carta d’identità verde e bilingue, segno dell’appartenenza, seppur un po’ di serie B, al para-stato altoatesino e chiave d’accesso al ricco welfare della provincia autonoma. Si dirà, che ci vuole, basta prendere la residenza a Bolzano e la si ottiene. Ingenui. L’accesso al sistema assistenziale, così come ai pieni diritti civili, scattano solo dopo 5 anni di residenza ininterrotta, in pratica è una mini-cittadinanza. Buona fortuna nel sopravvivere con 1300-1500 euro al mese a Bolzano mentre aspettate. Per questo la carta d’identità verde è rimasta per anni nei portafogli di molti dei miei conoscenti che si sono allontanati dall’Alto Adige. Sul lungo periodo tenerla può compensare il costo maggiore che si paga nell’immediato per le bollette o per l’accesso alle ztl mentre si vive nel resto d’Italia.

   

In uno spettacolo è apparso, tra gli applausi, un terrorista latitante. Ma nessuno scandalo, qui tutto rimane custodito nel silenzio delle montagne

Il giorno in cui ho finalmente rottamato la mia, di carta verde, e ho ricevuto la versione turrita e rosa da italiano vero, oltre a provare un certo brivido di temerarietà, ho avuto la netta sensazione di aver insieme infranto un tabù e dato un dispiacere a mia madre. Fa niente che i quadri finali della mia dichiarazione dei redditi certificassero che era possibile mettere insieme il pranzo con la cena anche nell’Italia a statuto ordinario, e farlo persino senza essere affiliati a camorre e massonerie varie: nessun autentico bolzanino crederà mai veramente che una cosa del genere sia possibile. Ci deve essere un inganno, egli pensa e chi sono io per smentirlo. Mi godo piuttosto l’aura di malaffare e loscheria emesso dal documento d’identità che contraddistingue la mia vita adulta. Va qui forse specificato che gli italiani che giunsero in Alto Adige sotto il fascismo e nel primo dopoguerra non erano esattamente “razza padrona”, si trattava in maggioranza di operai e piccoli commercianti in cerca di fortuna. Il gruppo linguistico italiano a Bolzano è stato a lungo privo di un’élite dotata di una sua expertise di governo, così come di una classe intellettuale. Nessuno da queste parti ha avuto bisogno di mandare il messaggio di tagliare i papaveri più alti e questo ha avuto un peso nelle vicende storiche e politiche della provincia, così come nel forgiare le aspettative delle generazioni di italiani che sono seguite. Oltretutto noi altoatesini siamo, come detto, italiani mediatici, traiamo cioè la nostra identità tricolore soprattutto dalla televisione, dai giornali e dalle notizie che arrivano da fuori, il che significa anche che, nonostante una situazione locale decisamente peculiare, abbiamo sempre spalmato il nostro voto, già di per sé minoritario, sull’intero ventaglio dei partiti parlamentari italiani, mentre i tedeschi, quasi come un sol uomo, votavano Svp, regalandolo al partito etnico maggioranze bulgare. L’unico episodio di compattezza elettorale italofona che si ricordi fu quello del referendum con il quale fu respinto a furor di popolo il cambio di nome di Piazza della vittoria – luogo ove sorge l’omonimo monumento fascista – in Piazza della pace. Anche qui ci dimostrammo molto italianamente disponibili a cedere su tutto meno che sui simboli. Fa niente che in senso assoluto “Piazza della pace” fosse un nome migliore, Piazza della vittoria era una dicitura che faceva parte della storia della città e, nel contesto che ho illustrato, quel cambiamento sembrò ai più l’ennesima presa in giro, così come irritò il fatto che i cartelli fossero stati sostituiti in maniera furtiva. I monumenti del periodo fascista continuano ad ogni modo ad essere oggetto di dibattito – un po’ come la toponomastica, con un ampio numero di cartelli italiani rimossi dai sentieri di montagna in netta violazione del principio del bilinguismo. Se il museo dedicato ai totalitarismi e posto sotto il monumento alla vittoria è una struttura ben riuscita (più infelice è “l’anello al naso” che è stato messo a una delle colonne), decisamente tragicomica è invece la modifica recentemente apportata ad un bassorilievo con un duce a cavallo. Un’operazione che è consistita nella sovrapposizione all’opera di una citazione di Hanna Arendt in lettere al neon. Una scritta che recita “Nessuno ha il diritto di obbedire”. Peccato che l’installazione si trovi esattamente di fronte al tribunale di Bolzano. Cortocircuiti un po’ grotteschi della retorica. Il significato è una variabile, come sempre, del contesto e la repubblica democratica italiana non è esattamente la Germania nazionalsocialista, una differenza che però a Bolzano sembra sfuggire a qualcuno. Nel dubbio comunque mia nipote di dieci anni ha preso a opporre la colta citazione della Arendt, alla madre e alla nonna quando la invitano a fare i compiti. D’altro canto è scritto anche sui monumenti cittadini. Nel reportage che chiude il mio ultimo libro “Storie dal mondo nuovo” ho raccontato, fra le altre cose, il dibattito attorno all’eredità del terrorismo autonomista, un periodo che lasciò a terra più di venti morti e vide la città di Bolzano, in particolare i quartieri e le strutture italiane, nel centro del mirino. Durante le ricerche ho presenziato ad uno spettacolo al teatro comunale di Bolzano, struttura pubblica, in cui sul palco sono apparsi, fra gli applausi, i contrabbandieri austriaci che avevano trasportato in Italia armi ed esplosivi usati per compiere attentati, così come su un maxi schermo in diretta Skype ha fatto la sua comparsa Siegfried Steger, un terrorista latitante all’estero. Fatti del genere in qualsiasi altra parte del Paese avrebbero fatto esplodere scandali lunghi settimane, in Alto Adige tutto è rimasto custodito nel silenzio delle montagne. Un piccolo mondo a tenuta stagna. Nella chiusa di quel reportage ho riportato la frase di un amico mistilingue, un giovane politico del Pd, che raccontava come in un noto radiogiornale in lingua tedesca le notizie fossero suddivise in “Sudtirolo e il resto del mondo”. Se ci fosse stato bisogno di confermare la tesi implicita, una volta che il libro è uscito, un giornalista di Bolzano ha deciso di recensire non i dieci reportage dalle zone più svariate del pianeta che lo componevano, ma solo il pezzo sull’Alto Adige. A suo modo un gesto autenticamente sublime, quasi letterario. Quest’irreversibile ombelicalità è anche il materiale da cui trae ispirazione Roberto Tubaro, un giovane architetto e mago di Photoshop, autore di un piccolo bestseller cittadino intitolato “Bolzano Caput Mundi” una raccolta di fotomontaggi satirici secondo la quale molti grandi avvenimenti e momenti iconici del ‘900 si sono svolti in realtà a Bolzano. Così il Rumble in the jungle del 1974 diventa George Foreman vs AndreasHofer Alois (ma la foto rimane quella di Muhammed Alì. Si noti anche che Andreas Hofer è il profeta dell’autonomismo sudtirolese), gli alleati sbarcano sul fiume Isarco, Martin Luther King arringa folle oceaniche in piazza Walter, la stessa del famigerato mercatino di Natale, e la provincia autonoma di Bolzano impone la sua grammatica anche ai nomi dei razzi della Nasa, nasce così l’Apollo 11/AHuhn 11. C’è qualcosa di profondamente liberatorio nella capacità di Tubaro di ironizzare sulle fissazioni altoatesine, anche se forse è una catarsi che solo chi ha vissuto a Bolzano può apprezzare fino in fondo. Una cosa però è certa: rispetto alla nostra carta d’identità verde il passaporto austriaco è una figurina Panini.

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