Il terremoto a Ischia e l'indomabile matrignità della natura

Umberto Minopoli

Homo sapiens è quasi riuscito nell’impresa di dominare tutto con la tecnica e trasformarsi in “homo deus”. Ma dobbiamo essere consapevoli: non dominiamo e non comandiamo né il clima, né i terremoti

Il professore israeliano Yuval Noah Harari è scrittore di successo. Storico colto e originale, indaga un oggetto singolare: il rapporto tra la storia del genere umano e la sua psicologia. La tesi del suo ultimo lavoro, “Homo Deus” (Bompiani, 2015), è suggestiva: homo sapiens è, ormai, vicino a vincere le avversità che, nei millenni dalla sua irruzione nella zoologia dei viventi, hanno segnato il suo rapporto con la natura: carestie, fame, malattie, epidemie e guerra. Per secoli attribuite “alle forze incomprensibili e incontrollabili” della natura o a poteri soprannaturali e divinatori, le avversità sembrano essere uscite dal destino di sapiens. Ed entrate, invece, nel suo dominio. Grazie a una macchina concettuale prodigiosa e a conquiste tecnologiche concentrate nello spazio ristretto del solo ultimo secolo e mezzo, homo sapiens, sostiene Harari, è vicino a una meta spettacolare: realizzare, addirittura, “beatitudine e immortalità”. Tratti, sinora, prerogativa degli dèi. Quando l’aspettativa di vita sembra essersi triplicata, in poco più di un secolo, e lascia intravedere addirittura il traguardo impensabile dei 150 anni, homo sapiens sembra prossimo a recidere l’ultimo laccio con la naturalità: l’essere mortale, la ragione ultima e irriducibile della infelicità sempre in agguato. Il dispiegamento di una potenza tecnologica immensa, l’ingegnerizzazione crescente della nostra natura biochimica, la decrittazione del genoma, la riproduzione moltiplicata, a proprio servizio, di facoltà umane nelle macchine, la crescente penetrazione della fisica e della chimica del cervello spostano, sostiene Harari, il confine tra l’uomo e la natura: sapiens sente allentarsi i vincoli da essa; avverte la sensazione della propria potenza e di una sua, prepotente e prorompente, autonomia e indipendenza dai secolari vincoli naturali. A lui sembrano attribuibili, sempre più, sostiene enfaticamente Harari in una orgogliosa elencazione documentata dei successi dell’umanesimo tecnologico moderno, prerogative di tratti divini. Per questo homo deus.

 

Tralascio le conseguenze, discutibili e problematiche, che Harari ricava circa il futuro di homo deus (“saremo dominati da un algoritmo”). Le ritengo, ahimè, una concessione indulgente a una sorta di dovuto pessimismo finale in una narrazione (convincente) fin troppo ottimistica e generosa. Servirebbe una trattazione specifica per confutare il pessimistico tratto finale di homo deus. Mi interessa, piuttosto, un aspetto che il saggista israeliano lascia un po’ in ombra: un dark side, un lato di penombra, un risvolto imprevisto che questa sorta di divinizzazione di sapiens sta determinando. E’ come se la psicologia di sapiens non riuscisse a stare al passo della sua potenza conoscitiva. E subisse una crepa di razionalità. E facesse trasparire un contraltare negativo della divinizzazione dell’uomo: la definitiva deresponsabilizzazione della natura. Ridotta a vittima soggiogata di homo deus, la natura è assolta da ogni effetto dei suoi comportamenti specifici e della sua dinamica. Non esistono più domini propri del comportamento della natura e di leggi del loro funzionamento: la natura è, ormai, evirata, impotente, succube. Sottoposta all’imperio di sapiens ormai deus, la natura diventa puro oggetto incolpevole: maneggiata e modellata da un nuovo signore: homo deus. Se ha vinto guerre e malattie, catastrofi ed epidemie; se trascende ogni limite naturale, allora l’uomo scalza la natura anche dagli ultimi resti della sua passata, incontrollata e matrigna potenza. Perché allora non completare il quadro e attribuire a homo deus il dominio degli ultimi territori naturali: il clima e il terremoto, la condotta del cielo e quella del sottosuolo? E’ la divinità dell’uomo che, come in ogni religione che si rispetti, si rovescia in antidio, in lato oscuro e diabolico della divinità. E’ così che ciò che resta delle catastrofi, in questa epoca del dispiegamento della potenza tecnologica come potere quasi divino di liberazione dalle costrizioni naturali, passa ad essere una colpa dell’uomo: Deus e Lucifero, verrebbe da dire. Credo che la narrazione di Harari vada ridimensionata. Non siamo affatto vicini alla smaterializzazione della potenza naturale.

 

L’uomo, pur avendo trasceso e vinto in massima parte limiti secolari della sua condizione di sudditanza, non si è liberato del cappio, del giogo matrigno, inconsapevole e cinico della natura. Finché non sfuggiremo (e dovremo farlo un giorno) al pianeta come unica casa, resteremo oggetti naturali: parte della dinamica della natura e della sua, a tratti terribile, purtroppo, casualità e imprevedibilità. E di un destino del pianeta che non è, purtroppo, come vuole invece il mantra delle responsabilità antropiche, nelle nostre mani. Biologia e natura interagiscono. Restano fastidiosamente intricate. Siamo e restiamo un ingranaggio. E così sarà. Harari esagera: l’uomo non sarà mai Deus. Ad esempio: non governerà e indirizzerà mai il clima riducendo il Sole e le leggi, fisiche e chimiche, di natura ad una variabile irrilevante. E non deciderà mai i terremoti riducendo a variabile, altrettanto irrilevante, la tettonica del pianeta. Prendete Ischia: uno schioppo di energia di un sottosuolo nascosto sotto un lago di plasma.

 

Cosa vuoi prevedere? E’ davvero contrario ad ogni legge fisica. E’ il caso di dirlo: solo l’occhio di un Dio poteva riuscirci. E homo non è deus. Checché ne dica Harari. Convinciamoci della innegabile pars costruens di sapiens: siamo sorprendenti macchine potenti pensanti. Grazie alla fisica e chimica di una biologia senza uguali nell’universo, abbiamo liberato la specie che solo 20.000 anni fa per sfuggire ai predatori in Africa da tante costrizioni naturali. E fatto del progresso, del miglioramento, dell’affinamento genetico quasi una legge. Ogni epoca dell’uomo è migliore delle precedenti. E questa la migliore in assoluto. Ma siamone consapevoli: la natura non la dominiamo e non la comandiamo. Con la sua inconsapevole eterna matrignità dobbiamo convivere: imparando, sempre di più, a prevenirne effetti e conseguenze della sua irriducibile casualità. Non siamo dèi né diavoli: siamo esseri intelligenti che possono farcela.