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Storia e declino di Jimmy Choo

Fabiana Giacomotti

Perché l'acquisto da parte di Michael Kors è l'inizio della fine per il brand di calzature un tempo simbolo del lusso prêt-à-porter

Considerato che il lusso è l’unica sovrastruttura capitalista non soggetta a cedimenti anche quando il mondo crolla – lo scriveva persino il beato Antonio Rosmini, per giustificare le spese dei ricchi della cerchia di Alessandro Manzoni che gli permettevano di studiare indisturbato a Stresa dando nel contempo dignità al lavoro artigianale di chi ricco non era ma forse, a suon di borse e collier, poteva diventarlo – è perfettamente ragionevole che Michael Kors, lo stilista più somigliante a un tycoon dell’immobiliare che il mondo conosca, si sia assicurato il brand di calzature Jimmy Choo. Il privilegio ha sempre un mercato e trova acquirenti a prescindere, e infatti Kors, che nella corsa ha battuto il colosso Interparfums (già produttore della fragranza) e il fondo CVC Capital partners, ha pagato Jimmy Choo circa un miliardo di euro, con un’offerta che secondo Exane Bnp Paribas valorizza il marchio 2,5 volte le vendite stimate per quest’anno e 22 volte l’ebit.

   

Al mercato, la soluzione-Kors deve essere sembrata una bella garanzia di lungimiranza strategica, visto che alla Borsa di Londra le azioni Jimmy Choo hanno aperto in rialzo del 17 per cento a 228,25 pence. Il brand vanta infatti buoni risultati di fatturato, oltre 364 milioni di sterline nel 2016 con un utile netto di 15,4, ma da tempo ha qualche problema di immagine. Dai fasti degli anni in cui la cliente di riferimento era Lady Diana e il product placement cinematografico di punta la serie “Sex&The City”, Jimmy Choo è infatti calato vertiginosamente nelle preferenze delle socialite e delle influencer mondiali, sostituito da Gianvito Rossi e Aquazzura – il brand fiorentino per il quale Ivanka Trump sta per finire davanti al giudice federale accusata di plagio di un modello di sandali, senza peraltro essere mai riuscito a scalfire l’impero di Manolo Blahnik, una realtà abbastanza surreale se si pensa che entrambi producono fra Vigevano e la Toscana. La differenza fondamentale fra Manolo Blahnik e Jimmy Choo, e il motivo per il quale il primo continua a essere indossato dalle principesse mentre il secondo è diventato appannaggio delle mogli dei calciatori (Kate Middleton esclusa, che sembra apprezzi molto i modelli con il plateau, atti a slanciare senza affaticare) è che il primo è rimasto di assoluta proprietà del suo fondatore, un adorabile e imperioso signore di Santa Cruz de la Palma che è venuto personalmente a montare la propria retrospettiva al Museo Morando di Milano, pochi mesi fa. Al contrario, Jimmy Choo è passato fra le mani di tre società di investimento che, rispondendo come ovvio alla propria natura di moltiplicatori di denaro, non di beni o di strategie di marchio, per anni ne hanno massificato la presenza per un totale di centocinquanta negozi, togliendo anche molta della sofisticazione iniziale al design. L’ultima di queste società è stata Jab Holding, veicolo della potentissima famiglia tedesca Reimann che aveva acquisito Jimmy Choo nel 2011 per 500 milioni di sterline e ne aveva già venduto una quota di minoranza nel 2014, e che ora sta dismettendo tutti i marchi acquisiti nel settore fashion, fra cui Belstaff, per concentrarsi su beni di massa ad alto rendimento immediato, dichiaratamente il caffè.

  

Il lusso rende, certo, ma ha bisogno di tempo, di modi, e di quella particolare leva che molti trascurano ma che nel momento in cui si vendono borse da duemila euro e scarpe da ottocento in su diventa fondamentale: si chiama competenza. “Ero stanca di veder cambiare continuamente facce nei consigli di amministrazione”, disse all’inizio del decennio, prima di andarsene (o di essere sbattuta fuori, non è mai stato chiaro) la cofondatrice del marchio, Tamara Mellon, figlia dell’imprenditore inglese Tom Yeardye ed ex moglie di Matthew Mellon, un cognome che negli Usa non ha bisogno di presentazioni visto che tutti possono leggerlo agevolmente all’ingresso dell’omonima università e nei libri sulla storia del paese. Giovane responsabile del settore accessori per Vogue Uk, Tamara Mellon aveva scoperto il ciabattino di origine cinese Jimmy Choo in un sobborgo di Londra e, dopo qualche difficoltà nel reperimento dei fondi che fa parte della leggenda ma di cui è permesso di dubitare, aveva lanciato la società in partnership: Choo al deschetto, lei alla guida e al marketing che, date le frequentazioni e i legami familiari, non era stato troppo impervio sviluppare. Con il successo mondiale, erano spuntati i pretendenti, tutti interessati a far quattrini nel minor tempo possibile, che nella moda e soprattutto nel lusso si è sempre rivelato un fattore esiziale: negli ultimi vent’anni, cioè da quando i fondi si sono interessati al business, solo il fondo sovrano del Qatar con Valentino ha portato vero sviluppo al marchio, ma perché se ne tiene lontano e non punta al ritorno in cinque anni. In compenso, il numero di marchi portati all’ammasso si è moltiplicato. Per salvarli, c’è sempre voluto un imprenditore. Uno che, per dire, nella strategia vincente dei privilegi creda davvero.

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