Un'immagine degli scontri al confine con la Striscia di Gaza (Foto LaPresse)

In medio oriente non basta la buona volontà

Redazione

Il diritto di Israele a difendersi e le responsabilità di chi vuole incertezza

[Articolo aggiornato alle 16,00] Israele ha rimosso i metal detector installati sulla spianata delle moschee di Gerusalemme per aumentare le misure di sicurezza. Secondo quanto riporta la Bbc saranno sostituiti da mezzi di sorveglianza meno invadenti nell'arco di sei mesi e nel frattempo sarà intensificata la presenza di forze dell'ordine. L'apertura di Israele non è bastata ad ammorbidire quella dei leader musulmani, che invitano a boicottare ancora i luoghi sacri. 


  

Si moltiplicano gli appelli perché nella crisi che si è creata dopo l’assassinio perpetrato da terroristi di Hamas di tre israeliani sulla spianata delle moschee prevalgano, come ha detto il Pontefice, “i propositi di riconciliazione e di pace”. Belle parole ed eccellenti propositi, che però trascurano di identificare l’origine della tensione, che risiede in un disegno di distruzione del controllo israeliano di Gerusalemme, da ottenere con metodi violenti. Il pretesto religioso è stato utilizzato in Turchia (che formalmente ha un’alleanza militare con Israele) per promuovere agitazioni “popolari”. In Giordania c’è stato un attentato nell’ambasciata israeliana, e questo si inscrive nel disegno di ridurre l’influenza della Giordania (e di quel che resta dell’Autorità nazionale palestinese) sostituendola con quella di Hamas, il cui obiettivo è “la fine dell’occupazione israeliana di Gerusalemme”. E’ evidente che la questione di chi debba controllare i metal detector è sproporzionata alla dimensione della posta in gioco. Si tratta di capire se i palestinesi, e in particolare le fazioni radicalizzate, hanno il diritto di uccidere, se è giustificata “l’ira” nei confronti di chi cerca di arrestare la spirale di violenza. Solo un riconoscimento del diritto (e persino del dovere) di Israele di garantire l’ordine può essere una base minima per avviare colloqui che stemperino la tensione. Si tratta della questione stessa dell’esistenza dello stato ebraico, non dei suoi confini o del suo orientamento politico. Se a uno stato non si riconosce il diritto di proteggere i suoi cittadini da attentati omicidi, si negano le basi della sua legittimità. Le migliaia di persone che hanno seguito i funerali delle vittime dell’attentato hanno diritto alla compassione e al cordoglio di una comunità internazionale che invece sembra decisa a voltarsi dall’altra parte. E’ giusto che il governo israeliano cerchi di delimitare e circoscrivere gli effetti di quello che non è stato solo un episodio, ma è parte di un piano di ampia portata, però la cautela necessaria non può trascendere nel cedimento alla pretesa terroristica di impunità per gli assassini. Il carattere ondivago dell’azione americana, le ambiguità connesse all’intervento della Russia e della Turchia in Siria, in generale l’incertezza delle prospettive nel medio oriente, indeboliscono obiettivamente la posizione israeliana. I nemici di Israele approfittano di questa situazione per dare un colpo al cuore dello stato ebraico, alla sua legittimità e alla sua esistenza. Il diritto a pregare nella moschea di al Aqsa viene esteso a quello di entrarci armati e di perpetrare orrendi crimini, per poi denunciare come anti islamica e non semplicemente anti terroristica ogni reazione che punti a fermare la spirale di violenza. In questa situazione chiedere soltanto “buona volontà” senza indicare le responsabilità di chi ha coscientemente innestato la spirale di violenza appare se non ipocrita almeno insufficiente.