Gravina in Puglia. Ponte acquedotto viadotto Madonna della Stella. Foto Wikimedia Commons

Il Tap di una volta

Fabiano Amati

Cosa può imparare il “popolo del No” dalla storia dell’Acquedotto pugliese, che per essere realizzato ha richiesto la trasformazione del sistema idrogeologico, paesaggistico e ambientale di Caposele 

Se per costruire l’Acquedotto pugliese si fosse ragionato come per Tap, la Puglia starebbe ancora nella sete e nella malattia. È un caso rappresentativo quello dell’Acquedotto ed emblematici sono tutti i suoi lavori di ampliamento, ammodernamento e manutenzione. Tra storia e cronaca tutto torna. Ci vuole solo un po’ di pazienza.

 

Era fine ’800. Dopo tanto peregrinare i tecnici pensarono di possedere gli strumenti tecnologici per sfidare la natura e il governo di Roma stanziò i soldi. A Caposele, alta Irpinia, sorge il Sele, un fiume con foce nel Tirreno. Ai piedi delle sue sorgenti c’era un piccolo lago ove in tanti si immergevano per ritrovare la salute: per questo le sorgenti erano dedicate a Santa Maria della Sanità. Un andirivieni di infermità per invocare la grazia del benessere aveva sviluppato una forma di paleo turismo religioso e grazie all’abbondanza d’acqua il paese si costellava di mulini e tintorie. Un’avanguardia produttiva, ça va sans dire.

 

Per dissetare la Puglia, il sistema idrogeologico dell'Irpinia fu radicalmente trasformato da perforazioni, scavi e deforestazioni

Per dissetare la Puglia, il sistema idrogeologico paesaggistico e ambientale di Caposele fu radicalmente trasformato, il “polo” produttivo di quella cittadina chiuse i battenti e il turismo religioso sfiorì. Neppure il Tempio, dedicato alla Vergine, fu risparmiato dall’anastilosi. Lo smontarono e ricostruirono a qualche centinaio di metri, lasciando nel luogo originario solo il vecchio campanile, a memoria futura. L’acqua del Sele cambiò dunque strada, non più verso il Tirreno, ma in direzione dell’Adriatico, incamiciata in un canale di circa duecentoquaranta chilometri, tra perforazioni di monti e scavi in trincea, costruzione di immensi ponti-canale con mastodontici serbatoi di diramazione e all’occorrenza qualche lavoro di deforestazione. Quando ai primi duecentoquaranta chilometri aggiunsero gli altri centocinquanta – circa – del grande sifone leccese, la memorabile impresa fu celebrata utilizzando l’acqua che nel lungo percorso non era stata utilizzata e adattando la geologia di un accidentato dirupo: una fontana a cascata, decisamente monumentale, sull’ultimo lembo del capo di Leuca.

 

Se dal basso si guarda la corona dello strapiombo, immaginando com’era prima dell’Acquedotto e del monumento celebrativo, sembra il trampolino di Leandro per raggiungere a Sesto la sua dolce Ero. Si resta senza fiato nel guardare la bellezza dell’immensa opera idraulica, a conclusione del suo lungo percorso; ma l’opera, pur modificando ambiente, paesaggio ed economia, aiutò i pugliesi a superare una preesistenza di privazioni.

 

L’ambiente e il paesaggio che oggi si ammirano, specchio orgoglioso di possesso del più grande acquedotto del mondo, non hanno nulla di naturale. La storia che invece ci si ostina a raccontare pare passata dalla camera oscura del romanticismo e della nostalgia, per poi impressionarla sulla carta lucida, perciò scivolosa, della suggestione.

 

Perché si avesse l’Acquedotto, l’intervento dell’uomo rabbonì la forza della natura, adattandola al miglioramento delle condizioni di vita. Come non capirlo, dopo aver letto al liceo Leopardi nel “Dialogo della Natura e di un islandese”, è cosa che non si riesce ben a spiegare. Un bosco, una foresta, un paesaggio agreste o un arenile dorato sono il portato di rimaneggiamenti umani: un continuo mutare, distinguere, modificare e sradicare, per ammansire il creato, vivere meglio e soprattutto per non morire troppo presto. Ogni qualvolta l’uomo si cimenta nella sua battaglia per il progresso, ha un unico obbligo: stabilire se la trasformazione sarà funzionale ai suoi bisogni e individuare il luogo in cui questa porterà minori modificazioni e rischi. E’ tutta qui la questione; lo fu per l’Acquedotto, lo è per la Tap e lo sarà per qualsiasi altra opera ingegneristica.

 

Certo, a fine ’800 non era ancora radicata la cultura della giusta tutela dei paesaggi, ma non lo era anche perché la scienza agronomica non aveva messo a punto le migliori pratiche per garantire la buona riuscita degli espianti e reimpianti. E’ sempre così: a ogni evoluzione accolta fa da pendant una controindicazione risolta. E’ il secondo principio della termodinamica a stabilirlo (quello dei pesci bolliti nell’acquario che non tornano in vita con il raffreddamento dell’acqua) e non già opinioni rilasciate ai giornali da personalità di successo in tutt’altri mestieri.

 

La legge pugliese sugli ulivi, per esempio, contiene un mix accurato di tutela e progresso, almeno stando al testo; prova ne sia che dal 2007, anno di introduzione dell’importante disciplina di protezione, decine e decine di interventi di espianto e reimpianto sono stati eseguiti per consentire la realizzazione di opere pubbliche e private.

 

Piani di lottizzazione ed edilizia economica e popolare, impianti per la produzione di energie rinnovabili (campi fotovoltaici) che per paradosso si ritrovano a svolgere, assecondando la dialettica della convenienza, le parti alternative del rimedio e del danno e infine – nella sitibonda Puglia si è sempre al solito punto – imponenti opere di ammodernamento idraulico.

 

Nell’attuazione del più recente programma di investimenti, con valore economico quasi pari a 1500 milioni di euro (1000 di questi derivanti da fondi comunitari), il servizio acquedottistico pugliese ha rivoluzionato il suo industriarsi, progettando e realizzando interventi compatibili sia con i tempi d’accoppiamento del falco grillaio, sia con la legislazione a tutela degli ulivi.

 

A parte il caso già noto dei 2.500 ulivi reimpiantati per l’acquedotto del Sinni, condotta idraulica alimentata dallo sbarramento in terra battuta di Monte Cotugno, per la cui realizzazione si mandò per sempre sott’acqua una porzione del territorio del comune lucano di Senise ingoiando campi e case di campagna, c’è dell’altro. Ed è già di più solo affidandosi alla memoria. Nello schema idraulico del Locone (che fa il paio con l’altro schema realizzato invadendo d’acqua, con una diga, buona parte del territorio di Conza della Campania) è stato costruito un adduttore: un’opera ingegneristica di collegamento tra l’omonimo potabilizzatore e l’abitato di Barletta, per la cui messa in opera sono stati espiantati e reimpiantati 4000 ulivi. Così 200 piante hanno fatto spazio ai lavori per l’adduttore adriatico a servizio del sifone leccese e altre 150 a quelli per la condotta premente dell’impianto della salentina Seclì, serbatoio di Sant’Eleuterio. Dal 2007 a oggi, in ogni caso, tutte le opere acquedottistiche pugliesi hanno richiesto l’espianto e reimpianto di un numero medio di ulivi pari a 600 unità. Anche scorporando da questa statistica complessiva gli ulivi monumentali, il discorso non muta.

 

Per Tap, su un totale di circa 200 ulivi, oggetto di espianto e reimpianto, solo 16 sono monumentali. Sempre dal 2007, che è l’anno di riferimento per calcolare l’innovazione paesaggistica pugliese, le pratiche di espianto e reimpianto sono state 152 e hanno interessato un numero totale di piante pari a 3.651 unità: una media di 24,02 per ogni pratica. Tap è dunque sotto la media.

 

È capitato a volte di metterla così nei dibattiti sul gas, magari in luoghi di conversazione non afflitti dalla psicologia della folla, incline a cercare negli slogan la più puntuta protezione dalle fatiche a cui si sottopone il cervello umano nel difficile percorso di adattamento all’evoluzione. Ma anche in quei luoghi più soft, dopo aver risolto per comparazione acquedottistica il problema tra gli ulivi e la Tap, acquista vigore il rilancio sull’opera inutile. Ma questa è un’altra suggestione, almeno stando a ciò che si vede e legge, piuttosto che a ciò che si cela e allude, e perciò non può essere valutata con dati e prove.

 

Il Piano energetico ambientale regionale, adottato nel 2007, scelse di dare “accoglienza” ai gasdotti “che realizzino collegamenti tra le sponde del bacino dell’Adriatico”, ricordandosi di specificare l’inesistenza di condizioni ostative alla loro realizzazione. Ma la narrativa si fece più avvincente ed esotica quando si riconobbe l’inserzione del gas naturale “sia nel quadro del riequilibrio delle fonti fossili, sia nell’indiscutibile ruolo della Puglia di nodo della distribuzione nell’area del Mediterraneo”. Il documento energetico del 2007 optò dunque per il gas naturale, nella speranza di contrastare il terribile mix di fonti primarie per la produzione elettrica del 2004, declinato con queste proporzioni: 57 per cento carbone, 16 per cento petrolio, 13 per cento gas naturale, 11 per cento gas siderurgico e 3 per cento rinnovabili.

 

L'ambiente e il paesaggio che oggi ammiriamo, specchio orgoglioso del più grande acquedotto del mondo, non hanno nulla di naturale

Quello del 2007 fu dunque un bel programma! Molto applaudito e con intenti programmatici quasi “eversivi”, nei diagrammi di stima sulle attese per il 2016: gas naturale 32 per cento, carbone 32 per cento, rinnovabili 18 per cento, gas siderurgico 11 per cento, Cdr 4 per cento e prodotti petroliferi 3 per cento.

 

Fatto sta che all’avvicinarsi del 2016 il documento del 2007 ospitò un aggiornamento: alla fine del 2015, infatti, l’aspettativa di parificazione tra gas naturale e carbone non si era ancora raggiunta, pur con uno spread tra gas naturale e carbone “sensibilmente calato”, mentre “un incremento importante delle fonti rinnovabili… ha ridotto l’incidenza dell’impiego di prodotti petroliferi e di altri combustibili”. Vale a dire che i campi fotovoltaici e le pale eoliche, altri “nemici” degli ulivi da lasciare nelle zolle esistenti, hanno contribuito ad avverare la stima sulle rinnovabili e che per il resto c’è ancora da lavorare.

 

Un bel ritorno al punto di partenza e alla ragionevole mozione del piano 2007, ove risultava “altresì essere una priorità, anche ai fini della compatibilità ambientale, nonché della suddetta razionalità energetica, la concreta e necessaria valutazione di ipotesi di impiego delle disponibilità energetiche derivanti dal funzionamento delle suddette strutture, in particolare i sistemi di rigassificazione, nel tentativo di recuperare parte delle ingenti risorse energetiche comunque utilizzate per far pervenire il gas all’utenza finale”.

 

Questa storia va raccontata anche così. Un po’ per demitizzarla e un po’ per staccarla dallo smercio di paure per acquisire lucro politico. Storie, cronaca, scienza, programmi, consumi e stili di vita, da non archiviare nell’assodato, servono a connettere ciò che le mani destra e sinistra fanno e sanno.

 

In Puglia c’è un campionario ingegneristico di buon assortimento dell’uomo che combatte le sue miserie e si fa avanguardia. Il futuro, ovunque arrivi per appagare nuovi bisogni o abitudini, non può “combattere” contro gli scudi delle amnesie; si chiamino essi documenti amministrativi sull’energia o memoria della “vecchia” sete e del colera.

 

Il “sacrificio” di Caposele, di Conza della Campania, di Senise, oppure la scelta per le rinnovabili, stanno sempre lì a ricordarlo. C’è un rimedio, e senza danni, per proteggere gli ulivi rigogliosi, e non è certo l’anti-scientismo o l’anti-intellettualismo. E’ tutto scritto nella legge e da dieci anni si fa sempre così… con il permesso della Xylella, quel noto flagello in espansione per via delle stesse sospirose ubbie. Ma questa è purtroppo un’altra storia.

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