Un'immagine di Onna, comune in provincia de L'Aquila, colpito dal terremoto del 2009 (foto LaPresse)

Per ricostruire l'Abruzzo non mancano i soldi, ma le capacità della Pa

Stefano Cianciotta

Scuole chiuse in un paese che si regge con lo scotch

La ricostruzione del terremoto del 2009 non è un problema di risorse ma di capacità delle amministrazioni locali a programmare, pianificare ed eseguire gli interventi. La conferma è arrivata nelle scorse settimane dai dati diffusi dall’Ance di Teramo, che in un dossier ha individuato luci e ombre della ricostruzione abruzzese. 

 

A fronte di 154 interventi programmati, che avrebbero potuto beneficiare di 144 milioni di finanziamenti da parte dell’ufficio speciale per la Ricostruzione (i fondi furono messi a disposizione dopo il sisma dal Miur, allora guidato dal ministro Mariastella Gelmini), solo l’8,3 per cento di questa somma si è tradotta in progetti realizzati. Il 36,1 per cento di questi interventi è in fase di progettazione, il 7 per cento è stato solo programmato (mancano ancora progettazione ed esecuzione), il 42,8 per cento è in fase di esecuzione, mentre un restante 7 per cento di interventi programmati è stato definanziato.

 

In otto anni sono stati conclusi sulle scuole interventi di adeguamento e/o di riqualificazione sismica a una media di tre all’anno. Tenendo conto del numero di professionisti, del numero di imprese presenti sul territorio e della necessità di avere scuole sicure, urgenza che nelle ultime settimane è diventata una emergenza, ci si chiede come sia possibile che una regione terremotata possa essere così lenta nella attuazione di un programma strategico particolarmente sentito dalla popolazione.

 

Le ragioni di questo immobilismo, a L’Aquila superato grazie alla intuizione dell’allora ministro Fabrizio Barca di istituire gli Uffici Speciali e dare vita alla scheda parametrica di valutazione, risiedono nella incapacità delle amministrazioni di dare attuazione ai progetti (progettazione ed esecuzione), carenza certamente acuita dalla riforma a metà della Pubblica Amministrazione dei Governi Monti e Renzi. La mancanza di progettualità e di organizzazione, infatti, è anche figlia della decisione di procedere allo svuotamento delle competenze e alla limitazione del turn-over del personale sia delle Province che dei Comuni. Se questa decisione avesse portato benefici in termini di risparmio della spesa corrente, ce ne saremmo fatti una ragione, ma non solo la spesa aumenta ogni anno in media del 4 per cento, ma a causa di strutture e organizzazioni evanescenti la risposta alle emergenze costa al paese almeno 3 miliardi l’anno (140 negli ultimi 40 anni).   

 

Così come è accaduto nelle scorse settimane con la gestione fallimentare dell’emergenza, i cittadini pagano da una parte la debolezza della politica, dall’altra un sistema ridotto a brandelli, lacerato, parcellizzato. Dopo l’improvvida nota della Commissione Grandi Rischi (che ha colpevolmente messo in guardia gli amministratori locali su una scossa tra 6 e 7 senza dire altro o indicare eventuali dati scientifici a supporto), gli amministratori locali hanno paura a mantenere aperte le scuole.  

 

E così accade, come all’Aquila nei giorni scorsi e a Teramo ieri, che alla prima scossa di terremoto nemmeno così particolarmente forte (a L’Aquila era stata 2,3, a Teramo 3,6 con epicentro Amatrice) le scuole vengono evacuate, e intere città vadano nel caos. Quello che sta accadendo in Abruzzo e nell’Italia centrale è la metafora di un paese che si regge con lo scotch, virtuale, senza più una spina dorsale.

 

In Italia si è persa la minima cognizione di cosa significhi prendersi delle responsabilità. Se i parlamentari giocano a stuzzicarsi come farebbero il gatto e il topo senza addivenire ad alcuna conclusione, se la Capitale assurge ai diritti di cronaca per l’audio di un suo assessore più che per le azioni concrete della sua giunta, se gli studenti vengono lasciati in strada senza che nessuna istituzione sia in grado di impartire una direttiva lasciando addirittura alle dirigenti e alle maestre l’onere di decidere cosa fare, se le casette post-sisma vengono assegnate a sorte, l’Italia è ormai un paese senza futuro. O ha solo bisogno di cambiare la classe dirigente. Al centro come in periferia.

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