Andrea Mantegna, “Sacra-Famiglia con una santa”. Prima di essere rubato, era custodito al museo di Castelvecchio a Verona. Oggi, ritrovato, si trova nel palazzo presidenziale di Poroshenko

Renzi, occhio a quei quadri

Salvatore Merlo
Una storia tragicomica, un’epopea di potere, un mistero diplomatico. Ecco come 17 capolavori della pittura italiana sono stati rapiti in Ucraina (e c’è un riscatto).

Quello che segue, cari lettori, è forse il romanzo tragicomico dell’estate. Si dipana tra giochi complicatissimi, ai confini tra l’operetta e la strategia geo-politica, tra fragili paesi dell’est Europa e istrionismi da repubblica delle banane, tra tensioni con la Russia e miserie di strapaese, tra il furto con destrezza e il traffico d’opere d’arte: magnifici quadri del Cinquecento maneggiati prima dai ladri (a scopo di lucro economico) e poi anche dai politici (a scopo di lucro politico). E a ben guardare tutta questa storia che stiamo per narrarvi, alla fine, viene da pensare che, per ragioni imperscrutabili, eppure fatali, le faccende italiane siano troppo spesso destinate in qualche modo a sciogliersi in commedia. Forse perché, chissà, lì dentro, cioè nel nucleo misterioso della commedia, che è la più grande tradizione cinematografica del nostro paese, è racchiuso il grande enigma che in questo tempo tiene insieme, in comico contrasto, la povertà della politica e la ricchezza della cultura e dell’arte. Ma veniamo alla storia.

 

Anche i più distratti ricorderanno forse di aver letto, visto o saputo, che a novembre dell’anno scorso, a Verona, era stato compiuto un rocambolesco e stupefacente furto di opere d’arte, addirittura definito il “furto del secolo” dai giornali e dalle televisioni di mezzo mondo: diciassette capolavori della pittura italiana, Mantegna, Rubens, Tintoretto, Pisanello, sottratti e trafugati da uomini incappucciati, e ripresi da inutili telecamere a circuito chiuso, senza che suonasse nemmeno un allarme nei saloni espositivi del magnifico museo di Castelvecchio che a Verona li custodiva.

 

 

La vicenda ha avuto un suo serissimo decorso giudiziario: invio di uomini in Moldavia, coinvolgimento dell’Interpol, di Eurojust e dell’Aia, intercettazioni ambientali e telefoniche internazionali che già il 15 marzo avevano consentito ai carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale, alla squadra mobile di Verona e al Servizio centrale operativo della polizia di stato, guidati dal pm di Verona Gennaro Ottaviano, e ai loro colleghi della Moldavia, di arrestare dodici persone in Italia e all’estero. Insomma d’individuare e smantellare la banda che senza troppi sforzi, con la complicità di un custode infedele del museo (“s’era fatto legare dai complici, ma guarda un po’, incredibilmente un’impiegata comunale disabile s’era liberata prima di lui”) era riuscita a far scomparire i quadri da qualche parte in Ucraina. Ed è qui, in Ucraina, che il fatto serio, potremmo forse dire il dramma per restare in ambito cinematografico e teatrale, comincia a incrinarsi in commedia.

 

Basta dire che oggi, a otto mesi dal furto, i quadri si trovano nella residenza del presidente della Repubblica Ucraina Petro Poroshenko, che ha il privilegio di goderne la vista, come un officiante sul calice. “Sono custoditi un po’ così, in modo artigianale. All’inizio erano stati ficcati in delle scatole di cartone con strane maniglie di tessuto. Ma almeno lì, nel palazzo del presidente, con tutte le guardie che ci sono, sono protetti”, dice chi li ha visti. Ma andiamo con ordine. Subito dopo il furto, in una prima fase, gli ucraini non collaborano con gli inquirenti italiani. Poi cominciano a collaborare (ma soltanto sotto la pressione dell’agenzia europea Eurojust). Finché l’11 maggio, improvvisamente, dopo sei mesi d’indagini, la polizia italiana non viene a sapere – dall’Ansa! – che gli ucraini, senza avvertirli, hanno ritrovato i quadri vicino Odessa, nel luogo in cui i carabinieri avevano suggerito che fossero.

 

 

Non solo. E’ proprio in quelle ore dell’11 maggio che la polizia italiana scopre con stupore che il ritrovamento dei quadri di Rubens, di Tintoretto e di Mantegna – scovati dai militari ucraini tra frasche e cespugli che circondano il fiume Dnests, al confine con la Moldavia – risaliva addirittura a cinque giorni prima, cioè al 6 maggio. Ricevuta questa notizia, a Verona trasecolano doppiamente: fino al 6 maggio, a sole tre ore di macchina dal luogo del ritrovamento, c’erano infatti gli uomini della polizia giudiziaria italiana, e persino il pm veronese Gennaro Ottaviano. Nessuno aveva voluto avvertirli, cosa che avrebbe altrimenti consentito, con verosimiglianza, un rapido rientro scortato in Italia dei diciassette quadri valutati intorno ai venticinque milioni di euro. Niente da fare. E comincia così una storia il cui apologo, tra gli altri, potrebbe essere questo: la prima regola è non perdere tempo con le regole.

 

L’11 maggio stesso la procura di Verona invia una rogatoria internazionale per restituzione dei quadri. “Ma ogni volta, con una scusa o un’altra, la richiesta veniva rimbalzata. Ci dicevano: ‘Manca una perizia’, e allora noi inviavamo i nostri esperti a Kiev. Poi ci chiedevano altri documenti, e noi li inviavamo in 24 ore via corriere Dhl. Ma niente. A un certo punto con i quadri ci hanno fatto persino una mostra. Poi ancora silenzio e traccheggiamenti. Fino a un’ammissione tra i denti della procura generale di Kiev: ‘I quadri sono diventati una questione diplomatica e politica. Adesso non possiamo ridarveli noi’”. E la rogatoria per la restituzione? “Inevasa”.

 


Immagine tratta dal video di Euronews


 

E infatti, ritrovate il 6 maggio, le diciassette tele cinquecentesche di proprietà del comune di Verona si trovano ancora a Kiev. Ma non in un posto qualsiasi, come s’è detto. A maggio infatti la dottoressa Paola Marini, studiosa di rango internazionale, oggi direttrice della Galleria dell’accademica di Venezia e per vent’anni direttrice del polo museale di Verona, ha infatti visto, con rotolìo d’occhi, che i suoi amatissimi quadri, i Mantegna e i Tintoretto, i Rubens e i Pisanello, si trovano tutti nel palazzo di Petro Poroshenko, oligarca delle automobili e del cioccolato, presidente della Repubblica d’Ucraina, nemico di Vladimir Putin, non certo un dandy raffinato, ma uomo intelligente che ha già saputo mischiare i propri interessi politici con questa povera vicenda dei quadri di Verona. “Io pensavo che i quadri ci sarebbero stati restituiti entro i primi di giugno”, racconta la dottoressa Marini, la cui voce s’incrina persino di tenerezza a parlare di queste opere di cui sente la responsabilità. “All’idea che non restituiscano i quadri, io non ci dormo la notte. Vorrei chiudere questa storia. I quadri ce li devono restituire. E presto”.

 

A quanto pare, dopo averli ospitati nella sua residenza, Poroshenko intende, chissà quando, portare lui stesso i quadri in Italia, ma vuole (anzi forse sarebbe meglio dire pretende) che a riceverli, come raccontano con tono sornione alcuni diplomatici della Farnesina, sia il presidente del Consiglio in persona, insomma Matteo Renzi. “Stiamo cercando di trovare la formula”, sussurrano al Ministero degli Esteri, perché non è possibile che la diplomazia italiana non prepari e non governi una visita di stato, non ne contenga gli eccessi pittoreschi, non concordi forme e contenuti degli interventi, e degli scambi. In pratica c’è da evitare uno sbracamento. D’altra parte a risolvere la questione ci aveva provato il sindaco di Verona, Flavio Tosi, che un po’ alla Alberto Sordi s’era scapicollato a Kiev per consegnare a Poroshenko la cittadinanza onoraria di Verona (“avevamo capito che ci teneva parecchio, e per noi un cittadino onorario in più o in meno…”).

 


Poroshenko con il sindaco di Verona Flavio Tosi (foto pubblicata dall'account del sindaco di Verona)


 

A un certo punto, per un’intera settimana, un turista ucraino che si fosse trovato a passeggiare per le strade della bella Verona, avrebbe persino potuto leggere avvisi di questo genere affissi in cirillico sulle facciate di tutti i musei cittadini: “Ingresso gratuito per i cittadini ucraini”. Solo per loro. E insomma Tosi ci provava. In ogni modo, ci provava. Anche quello più umiliante, o forse inutile. Perché ogni qual volta il sindaco tirava fuori di fronte a Poroshenko la questione dei quadri rubati e ritrovati, il negoziato e la discussione proseguiva al modo degli ucraini, i quali lasciavano a mezzo i discorsi, interpolandone altri, per poi riprenderli di punto in bianco, fumando ininterrottamente. “Roba da ammattire”. Alla fine, tuttavia, pare l’abbiano pure detto a Tosi, all’incirca, o almeno lui crede di averla capita così, tra un’allusione e l’altra: “Non ci basta un sindaco. Vogliamo Renzi”. E l’ha capita così anche Vincenzo D’Arienzo, deputato veneto del Pd: “I quadri sono nostri e Poroshenko li deve restituire subito. Non c’è bisogno che li dia al capo del governo italiano. Basta un autista o un aeroplano. Ce li deve mandare indietro. Punto. Deve rispondere alla rogatoria internazionale e rispettare le regole del diritto”.

 

Ma l’incontro con Renzi pare ci sarà, chissà quando e chissà come. Per gli italiani questa ginnastica d’istrionismo politico, che esprime la vanagloriosa invadenza dell’ospite autoinvitato, è un po’ fuffa senza interesse. Ma per gli ucraini è invece roba confezionata per andare in onda nella televisione di Kiev e nei resoconti della diplomazia russa. Il rancore russo-ucraino, si sa, è un uragano gonfio. E anche stavolta, come sempre capita, è dopo tutto una questione di potere e di scambio; di embargo da confermare contro la Russia, embargo che l’Italia è invece favorevole a rimuovere; e perciò questione di protezione e di legittimazione, di propaganda e d’immagine, tutte cose di cui il governo ucraino ha un gran bisogno.

 

In mezzo ci sono però i nostri poveri quadri, che in questa storia c’entrano e non c’entrano, ovviamente. O meglio, ce li fa entrare Poroshenko, che li utilizza per la politica e li degrada. E sembra incredibile, ma le tele, le opere d’arte in ostaggio, hanno così cominciato a parlare, come avrebbe voluto Michelangelo con il suo Mosé, a trasmettere cioè messaggi, a suscitare narrazioni, come quando, sempre sotto ricattuccio sottile, Massimo D’Alema restituì una statua di Venere a Gheddafi in cambio di una bimba che non poteva rientrare in Italia. Su Poroshenko, che come nell’Odissea non sappiamo se è olivo o olivastro, se sta insomma nella civiltà classica dell’universo ordinato, del ‘cosmos’ coltivato, o se sta invece nella degenerazione della civiltà, dunque nel selvatico, questa vicenda spiega tante cose.

 

Ma forse di più – si vedrà – dice dell’Italia. Ve lo immaginate Poroshenko che, dopo aver furbescamente trattenuto dei quadri del Metropolitan Museum di New York, parla al congresso degli Stati Uniti, o viene ricevuto dal presidente Barack Obama? Nessuna diplomazia occidentale tollera eccessi e  richieste, quel genere di “offerte che non si possono rifiutare” tanto care al padrino di Francis Ford Coppola, né tanto meno accetta di degradare le proprie opere d’arte a materia di propaganda altrui. E allora l’impiccio dei quadri rubati a Verona, ritrovati nella boscaglia ucraina, e trattenuti a Kiev, come tante altre vicende di questo nostro paese, davvero sembra un film, una commedia appunto. Una storia tragicomica in via pregiudiziale, un’epopea di potere, abusi, furbizie e miseria.

Di più su questi argomenti:
  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.