Foto LaPresse

I terremoti non si possono prevedere, ma ricostruzione e prevenzione andrebbero fatte meglio

Piero Vietti
Pochi soldi, regole aggirate e difficoltà a mettere in sicurezza vecchi edifici. “In molti casi le regole sono fatte male o non applicate, si pensi ai capannoni crollati in Emilia durante il terremoto del 2012”. Il modello ideale da guardare è il Giappone. Parla il sismologo Rinaldo Nicolich.

Roma.  Nella tarda mattinata di ieri già circolavano su social network e siti di informazione opinioni discutibili di sedicenti esperti che assicuravano, come sempre succede a tragedia avvenuta, che “il sisma si poteva prevedere”, anzi qualcuno lo aveva persino previsto, ma naturalmente è rimasto inascoltato. Ma i terremoti, purtroppo, non si possono prevedere. Lo spiega bene al Foglio Rinaldo Nicolich, geofisico e sismologo, già ordinario di Geofisica nell’Università di Trieste, esperto di Progettazione e ricostruzione antisismica e con decenni di esperienza alle spalle nello studio del suolo e dei terremoti.

 

“Ci sono studi in atto per cercare di prevedere i terremoti – dice Nicolich – Fanno previsioni e verificano se gli eventi effettivamente si realizzano. Quando l’evento conferma la previsione, viene fatto sapere, altrimenti tutti tacciono”. Al momento però, dice il professore, nessun sistema è in grado di prevedere un sisma: “Ci sono tantissimi parametri in gioco, è difficile tenere conto di tutti”. I programmi sono elaborati, spiega Nicolich, c’è una scuola di matematici russi che sta facendo studi avanzati, “ma con la stessa precisione con cui si fanno previsioni economiche attendibili sulla Borsa”, sorride.

 

“Attualmente non ci sono possibilità di prevederli. E se anche si riuscisse, non si potrebbe fare molto, se non preallertare le autorità, la Protezione civile”. Qualcosa si potrà pur fare, prima, per evitare disastri come questo? “Per una corretta analisi del rischio – risponde Nicolich – si deve tenere conto di tre fattori: la pericolosità, che riguarda la struttura e i movimenti della terra, che è un elemento vivo che si muove e muoverà a lungo”. Geologia, geofisica e sismologia devono interagire per capirne gli effetti. “Poi c’è la vulnerabilità degli edifici che, sottoposti a scosse sismiche, possono cadere: bisogna costruire edifici nuovi in modo corretto e capire se è possibile intervenire strutturalmente sugli edifici vecchi in modo che si deformino senza crollare”. Infine l’esposizione. “In una zona già indicata come soggetta ad attività sismica non si possono esporre edifici ad alto valore aggiunto”.

 

Le costruzioni insistono sulla superficie della terra, e nei primi strati della crosta possono avvenire delle amplificazioni – in Italia è tipico. “Per questo è necessario fare studi approfonditi per costruire in modo corretto”. Grazie alla microzonazione – tecnica di analisi sismica di un territorio che ha lo scopo di riconoscere le condizioni geologiche e geomorfologiche locali dell’immediato sottosuolo – si possono dare “parametri di rischio sulla cui base si dettano regole di pianificazione e costruzione per determinate aree”. In altre parole, si riducono i costi, perché si sa cosa e dove costruire e se l’edificio dovrà avere certe caratteristiche antisismiche o meno. “I terremoti avvengono quasi sempre in zone dove sono già avvenuti: nelle zone dell’Appennino colpite ieri dal sisma è successo spesso, e con magnitudo sull’ordine del sesto grado della scala Richter”.

 

 

Sempre troppo tardi

In Italia però si corre ai ripari sempre dopo le tragedie. A Norcia ieri la scossa è stata più forte di quella del terremoto che colpì la città nel 1979, ma poiché dopo quella volta le case sono state costruite con criteri antisismici, non ha provocato danni devastanti. “In molti casi le regole sono fatte male o non applicate”, denuncia il sismologo che per sette anni è stato membro della Commissione di microzonazione sismica del Molise, “si pensi ai capannoni crollati in Emilia durante il terremoto del 2012”. Nicolich racconta che il modello ideale da guardare è naturalmente il Giappone, dove hanno progettato persino “edifici con rotaie che resistono a spostamenti di qualche centimetro senza deformarsi”.

 

In Italia invece “le costruzioni vecchie o approssimative sono usuali”, soprattutto nelle zone di espansione di città e borghi: “Di solito il centro dei paesi è costruito su terreni consolidati, mentre è sulle zone limitrofe che si è costruito senza criterio”. Un esempio? Il centro storico di Provvidenti, cittadina colpita dal terremoto del Molise nel 2002, rimase praticamente intatto, mentre nella zona di espansione crollò quasi tutto, racconta Nicolich. “Paradossalmente il contadino di un tempo ne sapeva più di tanti studiosi di oggi”. Perché non si fa prevenzione, ristrutturando ospedali, scuole e abitazioni nelle zone a rischio? “Mancano i soldi”, risponde Nicolich, che sottolinea anche come regole e procedure non aiutino. “L’unica cosa fattibile al momento è procedere poco per volta”.

 

Dopo un terremoto, però, si paga di più di quanto si sarebbe speso per sistemare gli edifici. “Vero, e la ricostruzione delle zone terremotate è sempre faticosa e lenta”. Infine, nel nostro paese “c’è un problema di cultura e preparazione dei tecnici: bisognerebbe guardare casa per casa e intervenire. Mancano costanza, determinazione e continuità”. E ogni volta si ricomincia da capo.

Di più su questi argomenti:
  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.