Un frame del documentario “A very sicilian justice” di Al Jazeera

La Trattativa è ormai roba buona solo per i docufilm di al Jazeera

Luciano Capone
Stato e mafia, Di Matteo e Ciancimino. La Sicilia secondo il Qatar

Roma. Mentre in Italia l’attenzione sul processo sulla trattativa stato-mafia continua ad assopirsi parallelamente agli esiti dei processi, che per adesso non vedono confermato l’impianto accusatorio della procura di Palermo, e contemporaneamente sono in declino tutte le opere di divulgazione collegate all’inchiesta, dai libri agli spettacoli teatrali passando per i film, la trattativa scopre una sua nuova gioventù all’estero. Al Jazeera, la televisione del Qatar ora in declino ma nota in tutto il mondo per la diffusione dei videomessaggi di Osama bin Laden, ha infatti prodotto un docufilm sulla Trattativa dal titolo “A very sicilian justice”. Il documentario, tecnicamente ben fatto da Paul Sapin e Toby Follett e che si avvale della voce narrante del premio Oscar Helen Mirren, parla dell’isolamento del magistrato Nino Di Matteo, minacciato di morte per la sua inchiesta sul “processo del secolo”, quello appunto sulla Trattativa.

 



 

Sulla scia del successo all’estero della “Piovra” negli anni 80-90 e adesso di “Gomorra”, non c’è dubbio che anche “A very sicilian justice” avrà un successo di pubblico. Gli ingredienti ci sono tutti: una storia vera, l’inchiesta appunto, i buoni e i cattivi, i pentiti e i traditori, il bene e il male che si mescolano e vengono a patti, la spy story con i servizi (deviati) dello stato al servizio della mafia e la mafia (deviata) che tradisce Riina per accordarsi con lo stato. Tra l’altro si tratta di una trama che troverà terreno fertile nel pubblico arabo, abituato ad avere a che fare con i regimi militari e quindi molto incline a credere alle cospirazioni e al lavoro attivo e poco pulito dei servizi segreti.

 

La storia ha un protagonista, il magistrato Nino Di Matteo, che, isolato dalla politica e dalle istituzioni e minacciato di morte, indaga sulle stragi di mafia di inizio anni 90 che avevano lo scopo di costringere la Repubblica a scendere a patti con la criminalità e sulla trattativa che sarebbe stata imbastita con uomini infedeli dello stato, politici, poliziotti e uomini dei servizi segreti. Paolo Borsellino avrebbe scoperto questa trattativa e sarebbe stato ucciso proprio per la volontà di denunciarla pubblicamente, ora invece è Di Matteo a voler far luce su quegli eventi e rischia la stessa tragica fine.

 

L’alter ego del protagonista, che vive sotto scorta per la continua minaccia sia da parte della mafia che dei servizi segreti (deviati), è invece Massimo Ciancimino, il figlio del boss Don Vito, trait d’union tra mafia e politica, che si pente e diventa il testimone chiave del processo. “Tutte le minacce per Di Matteo sono uguali per me, l’odio di Riina verso Di Matteo è minore rispetto a me”, dice Ciancimino, che come il pm rischia la vita ed è pure senza scorta. I due sono cresciuti nella stessa scuola e giocavano insieme a pallone, ma le strade si sono divise. Di Matteo, cresciuto con il mito di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è diventato magistrato per sconfiggere la mafia. Ciancimino, cresciuto tra Totò Riina e Bernardo Provenzano, era dall’altra parte della barricata. Ma le strade sono destinate a unirsi, perché i due hanno una motivazione comune: cambiare il proprio stato colluso con la mafia uno, cambiare la propria famiglia mafiosa l’altro.

 

Il patto viene sancito idealmente con la preghiera di Massimo Ciancimino sotto l’albero in Via D’Amelio, sul luogo dell’attentato a Borsellino e poi fisicamente con l’incontro tra i due in tribunale per la testimonianza. Il documentario è ben fatto. Ci sono solo alcuni problemi nella trama. Inizialmente si dice che la mafia compie le stragi per piegare lo stato e che lo stato non solo tratta, ma si sottomette completamente. Nella parte finale invece, quando si parla delle minacce di morte a Di Matteo e dell’attentato a Borsellino, emerge che in realtà è lo stato a commissionare gli omicidi. In pratica si parte con la mafia-stato, che come dice Di Matteo “è un’organizzazione che vuole esercitare il potere al posto dello stato”, e si finisce con lo stato-mafia, che invece ordina stragi ed esercita il potere attraverso la mafia. Alla fine la trama appare senza senso, l’unica logica spiegazione è che ci sarà un sequel.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali