Morto il boss di Cosa nostra
“Così entrai nella testa di Provenzano”. Il diario del generale Mario Mori
E’ morto Bernardo Provenzano e molti ora ne descriveranno la figura, a corredo di un coccodrillo sicuramente già pronto per le sue critiche condizioni fisiche note da tempo. Farlo da parte di chi, come uomo delle Istituzioni, è stato accusato di averne favorito la latitanza e tutt’ora subisce un procedimento in correità per avere trattato contro le Istituzioni, il processo alla così detta trattativa, può apparire strano se non addirittura sconveniente. Ma io non parlerò del criminale mafioso perché non mi compete e ci saranno tanti altri a farlo, magari anche esagerando fino all’inutile dileggio, secondo il costume diffuso tra coloro, e non sono pochi, che riescono a essere inesorabili soprattutto quando l’obiettivo è rappresentato da chi ormai non può più nuocere.
Il mio ricordo di Provenzano è la ricostruzione della personalità ideale di un uomo mai visto, nemmeno dopo la sua cattura avvenuta nell’aprile del 2006. Nell’attività investigativa, quando ci si confronta con individui o vicende che esulano dalla norma sino a diventare veri e propri rebus professionali, si tenta sempre di definire il quadro delle ricerche studiando non solo la storia e le modalità operative dell’organizzazione da combattere, ma soprattutto si cerca di comprendere le motivazioni e i comportamenti degli uomini che la rappresentano e la dirigono. Ecco allora che, per ciò che attiene Cosa nostra, analizzare le personalità di un Totò Riina e di un Bernardo Provenzano diventava un’esigenza professionale, così come era stato per me in precedenza mettere a fuoco ad esempio le caratteristiche di esponenti del terrorismo nazionale come i brigatisti rossi Mario Moretti o Barbara Balzerani. In genere in queste ricostruzioni si va per comparazioni, nella fattispecie io mi ero prefigurato l’uomo e il mafioso Provenzano mettendolo a confronto con il suo sodale Salvatore Riina, operazione consentita anche per le descrizioni che testimoni o collaboratori di giustizia già per loro conto facevano nelle dichiarazioni rilasciate in merito.
Ne era venuto fuori un ritratto fatto di molte ombre e dubbi, ma con alcuni punti fermi. Lo zu Binu, come lo chiamavano i suoi, non appariva un criminale senza incertezze come dava a intendere invece Riina: temeva di essere catturato, usava circospezione assoluta nei movimenti, il suo modo di esprimersi scritto e orale era sì sgrammaticato e a volte contorto, ma sempre prudente e allusivo, mai volgare o irridente, attento anche alle cortesie formali e alla fine, tutto sommato, specchio di una personalità non semplice e con qualche tratto di umanità come i pensieri rivolti alla moglie e ai figli stavano a dimostrare. Si potrebbe dire che il mafioso si configurava tutto sommato più pericoloso di un Riina o di un Bagarella che su di lui ebbero il sopravvento all’interno dell’organizzazione, perché con la sua prudenza e la convinzione che non fosse possibile confrontarsi militarmente con lo stato, ma che convenisse invece inserirsi nei suoi gangli, egli avrebbe potuto ancora per più tempo mantenere operativamente in piena efficienza la sua organizzazione, rispetto agli esiti ottenuti dai modi truculenti propri dei suoi compagni corleonesi. Le vicende occorsegli, per nostra fortuna, ci hanno risparmiato il pericoloso realizzarsi del suo modo di vedere che sarebbe stato comunque correlato da molti altri gravi lutti, perché le sue linee strategiche, imperniate ancora e sempre sul possesso del potere reale, non differivano nella sostanza da quelle degli altri capi di Cosa nostra.
Si è spento progressivamente, perdendo alla fine ogni parvenza di coscienza e capacità di volere, umiliato dalla notorietà che non gli ha risparmiato, come invece occorso a tanti boss che lo avevano preceduto, la piena ribalta del suo inesorabile declino fisico. E forse questo per un mafioso del suo livello, negli ultimi momenti di lucidità posseduti, deve essere stata considerata la pena maggiore inflittagli.