La deputata e virologa Ilaria Capua

Il traffico di virus dei cialtroni che hanno trasformato il garantismo in gargarismo

Claudio Cerasa
Chi può dirsi oggi non complice di quel sistema di sputtanamento collettivo che viene attivato dal circo mediatico ogni volta che una procura apre un fascicolo e mette sotto indagine qualcuno? Ancora sul caso Capua.

C’è una ragione precisa per cui gran parte dei giornali italiani è risultata ipocrita nel raccontare la storia incredibile di Ilaria Capua e dell’inchiesta altrettanto incredibile che per molti anni ha messo sulla graticola la virologa accusata di aver trafficato in virus altamente patogeni esponendo il nostro Paese a un’epidemia di influenza aviaria che sarebbe consistita “nel contagio di sette persone operatori del settore”. In questi giorni molti quotidiani e molti osservatori hanno dato conto di un’inchiesta assurda conclusasi lo scorso 5 luglio con un proscioglimento degli imputati per mancanza di prove (“le sette persone che furono indicate nell’imputazione come contagiate in realtà non presentavano alcun sintomo di malattia ma solo segni di positività per anticorpi conseguenti all’esposizione ad animali infetti e solo uno dei suddetti soggetti è risultato affetto da una lieve congiuntivite, affrontata mediante la prescrizione di un trattamento di collirio alla camomilla”) e con una sculacciata poderosa rifilata dal tribunale civile e penale di Verona a quei magistrati che hanno persino formulato accuse “inconsistenti di associazione di delinquere” (sculacciata che, siamo pronti a scommettere, nella vita dei pm non ha avrà alcuna conseguenza pratica).

 

Ma negli stessi istanti in cui tutti leggevamo commenti stupefatti relativi a un’inchiesta che ha avuto l’effetto di scatenare un cortocircuito mediatico e giudiziario che ha rovinato per molti anni la vita di alcune persone, come Ilaria Capua, risultava evidente che gran parte di chi ha mostrato indignazione per la macchina del fango scatenata contro Ilaria Capua non era credibile nel suo sdegno per una ragione semplice: chi può dirsi oggi non complice di quel sistema di sputtanamento collettivo che viene attivato dal circo mediatico ogni volta che una procura apre un fascicolo e mette sotto indagine qualcuno? Detto in altri termini, chi può dirsi non responsabile, nel mondo dei giornali, della politica e dell’establishment, della creazione di un clima in cui chi è indagato è colpevole fino a sentenza definitiva e in cui ci si sente legittimati a sbattere il mostro in prima pagina fottendosene se il mostro non era un mostro e se l’indagine era una ciofeca e se le accuse non sussistevano?

 

La vicenda di Ilaria Capua colpisce perché l’oggetto dello sputtanamento stavolta non è un totem politico da abbattere attraverso una rivoluzione portata avanti per via giudiziaria e la spiegazione dell’accanimento contro la Capua non la si può spiegare limitandosi a individuare, come hanno fatto in molti, una pulsione anti scientifica del nostro paese. La si deve spiegare andando più a fondo e riconoscendo che purtroppo ha ragione Marco Travaglio quando mette sullo stesso piano la parola garantismo e la parola gargarismo. La storia di Ilaria Capua, da questo punto di vista, non è un infortunio del sistema mediatico ma è la prassi, è la norma, è il criterio standard con cui tutti i giornali italiani (tutti tranne un piccolo giornale) trattano un’ipotesi di reato trasformando una semplice indagine in una verità assoluta a seconda delle proprie convenienze. Il terreno fertile su cui nasce il fungo velenoso del grillismo è questo e non stupisce che molti esponenti del Movimento 5 stelle abbiano chiesto il linciaggio di Ilaria Capua subito dopo l’apertura dell’indagine. L’onorevole Di Battista, raffinato maître à penser del grillismo, salutò l’indagine con un hashtag di grande profondità culturale, #arrestanovoi, ma purtroppo in queste ore non ha avuto il tempo di trovare un hashtag altrettanto efficace per chiedere scusa alla dottoressa Capua (glielo suggeriamo: #cialtroninoi).

 

E allo stesso modo una sua collega, la dottoressa Chimenti, onorevole cittadina a cinque stelle, prima di esultare per l’assoluzione della Capua ha cancellato dal suo sito personale un simpatico post in cui chiedeva, “nel dubbio”, all’adorata collega (Capua è deputata di Scelta Civica) di dimettersi subito e senza fare troppe storie. Il grillismo però, la formula del #cialtroninoi, non è un fungo che nasce così all’improvviso ma nasce grazie a una serie di concimi naturali che sono stati sparpagliati per molti anni in giro per l’Italia. Per essere più chiari: possono non ritenersi responsabili della proliferazione del metodo Capua tutti quei giornali che dedicano regolarmente pagine su pagine a un’inchiesta altisonante di una procura salvo poi, molti anni dopo, nascondere in un box a pagina ventidue, senza chiedere scusa, la notizia di un’assoluzione o di un proscioglimento di un imputato? Possono non ritenersi responsabili della proliferazione del metodo Capua i giornali che praticano il garantismo solo quando le indagini in questione riguardano i propri amici e non i propri nemici? Possono non ritenersi responsabili della proliferazione del metodo Capua tutti i politici che hanno trasformato in una prassi lo sputtanamento definitivo di tutti coloro che nella propria vita hanno ricevuto un avviso di garanzia?

 

In un bellissimo libriccino scritto per Laterza (“La democrazia del leader”), Mauro Calise centra perfettamente la grande questione dei nostri tempi, individuando la presenza nel nostro paese di una tentazione latente: “La tentazione e la voglia che il popolo si faccia giustizia da solo, attraverso sentenze affidate a un tribunale mediatico popolare”. Il movimento di Grillo realizza perfettamente questo sogno, questo obbrobrio ci verrebbe da dire, e lo fa nell’indifferenza generale, e dunque nella complicità, di tutti i campioni dell’informazione che hanno reso possibile la diffusione di un virus, quello del garantismo uguale gargarismo, che difficilmente, a differenza del caso Capua, potrà essere curato mediante la prescrizione di un trattamento di collirio alla camomilla. Indignatevi pure, dunque, ma prima di farlo pensate almeno un attimo a chi ha reso possibile culturalmente l’ascesa orgogliosa del popolo del #cialtroninoi.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.