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great resignation

Le grandi dimissioni sono tra noi. Ma spesso finiscono sul divano

Michele Masneri

Tutti si licenziano, ma per fare cosa? Cuoco e altri lavori passati di moda che nessuno vuole più fare

Il lavoro dei sogni? E’ licenziarsi. Licenziarsi è il trend del momento, il sogno di tutti, soprattutto i più giovani, ma non solo. Forse anche stressati da una vaga sensazione di fine-di-mondo, tra catastrofe climatica, guerra, guerre culturali e politiche demenziali. Se ne parla in libri (ultimo, “Le grandi dimissioni”, di Francesca Coin, Einaudi), trasmissioni, chiacchiere con amici e psicologi. Nella crescente temperie di “big resign” o appunto grandi dimissioni che alligna in tutto il globo, non si sa più a che santo votarsi. In Italia sono oltre 1,6 milioni le dimissioni registrate nei primi nove mesi del 2022, il 22 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2021 quando ne erano state censite più di 1,3 milioni. Il dato arriva dal ministero del Lavoro. Tra le cessazioni dei rapporti di lavoro le dimissioni costituiscono, dopo la fine dei contratti a termine, la percentuale più alta.   Guardando il solo terzo trimestre dell’anno scorso, le dimissioni sono state 562mila, in crescita del 6,6 per cento (pari a +35mila) sul terzo trimestre 2021. Dati che confermano, dunque, come continui quest’onda lunga del licenziarsi.

 

Ma se tutti si licenziano, non si sa poi cosa vanno a fare. Certo, ci sono lavori infami che forse è un bene che non si facciano più. Per esempio, si sbaglierà, ma l’intera industria della ristorazione per come è oggi è arrivata al capolinea. Se parlate con quelli che ci lavorano, semplicemente è caduta la finzione, quella per cui stare 20 ore al giorno in cucina per 1500 euro (metà in nero) era considerata un’opportunità. Già, ma per chi? Le grandi dimissioni al ristorante si sentono, eccome. I tempi di attesa sono raddoppiati ovunque, anche perché magari nel frattempo  il ristorante ha aperto dei bei dehors grazie al covid (big resign, big dehors). Insomma, la rappresentazione plastica delle grandi dimissioni è quando ti siedi nel dehors di un bel ristorantino e lì rimani un’ora, senza che nessuno venga a servirti (si creano praticamente dei coworking ufficiosi, ti puoi mettere lì a lavorare col computer, se ancora lavori, nessuno si accorge di te). Alcuni sostengono che dovrà cambiare proprio l’approccio al settore, perché l’italiano ha una specie di soglia psicologica dei 50 euro, sopra i quali non va, e sotto la quale pretende servizio e prodotti e locali di prima qualità. Una cosa che non sta in piedi se non appunto a patto di pagare poco e in nero i dipendenti. Forse si arriverà come negli Stati Uniti a uscire a cena non più una volta alla settimana ma una al mese, pagando il doppio (più le mance).

 

Quello dei cuochi è un crollo anche identitario: anche la figura dello chef, moderno messia e sex symbol, è ormai incrinata.  Trasmissioni come Masterchef hanno lanciato nel tempo il sogno di una vita favolosa tra pignatte fumiganti e impiattamenti artistici, poi però si è scoperto che è una vita micidiale. Con Anthony Bourdain, probabilmente, e la sua tristissima fine suicida, si è chiusa la parabola del cuochismo; così come con la chiusura del massimo tempio della cucina mondiale, Noma a Copenhagen, celebrata anche da un film del genere “eat the rich” cioè ricconi che fanno una  brutta fine (dal ricco che mangia al ricco che viene mangiato), “The Menu”, con Ralph Fiennes che fa il cuoco superstellato pazzo che decide di far fuori tutti i clienti in un colpo solo. Oggi sopravvivono solo trasmissioni che giocano più su invidia e risentimento tra le pentole (Quattro ristoranti), non a caso declinabili in vari settore, e si sa che i pochi “stellati” che ancora ce la fanno, ce la fanno solo grazie alle sponsorizzazioni e ospitate televisive, non certo ai loro business della ristorazione. Ma se il cuoco non va più bene, cosa bisogna mai fare? Una volta si diceva fai l’avvocato, che una laurea in legge serve sempre. Magari online, come va di moda oggi, ma poi anche lì c’è un eccesso di offerta. Altrove non va meglio: un  tempo il sogno era partire per la Silicon Valley e lì sfondare con un’invenzione un po’ fessa che però rivoluzionava il mondo. Il  “founder” siliconvallico  era il lavoro dei sogni degli anni Duemiladieci, tra Tesla che ti portavano in ufficio, massaggiatori e cuochi come benefit, e le biciclettine dei campus di Apple e Google.   Ma è tutto finito, e  hanno cominciato a licenziare loro, senza neanche lasciare il  tempo di dare le dimissioni. Negli ultimi mesi oltre 50.000 tagli  (con choc generazionali di chi mai aveva previsto d’essere disoccupato). 

 

Ma quindi, che fare?  Aprire il chiringuito sulla spiaggia come il papà di Meloni? Già, ma non possono esserci 1,6 milioni di chiringuiti (o chiringuitos?). Siamo un paese in crisi di mezza età che vuole andare a vivere in campagna? Ma non c’è campagna sufficiente per tutti. Mettersi a fare gli scemi su Onlyfans? Ci vuole il fisico. I creator digitali? Ci vuole la faccia. Aprire l’Airbnb, grande ammortizzatore sociale italiano? I sindaci stanno procedendo alla stretta.  Forse  si vuole semplicemente fare niente, buttarsi sul divano e basta. Accada quel che accada. Questo però  implica l’esistenza di una rete di protezione immobiliare, prime case esentasse di zie e nonne anche in città decotte, divani per tutti.  E lì aspettare la fine del mondo,  ma poi le bollette chi le paga? Se poi arriva la patrimoniale o la rivalutazione del catasto siamo tutti morti, è chiaro.  

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).