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Il romanzo dell'Agnelli sbagliato

Michele Masneri

Cuore, dinastia, rimbrotti, sentimenti e risentimenti. Il disastro Superlega nasconde una storia massimamente balzachiana fatta di poteri, invidie, gelosie e  una frase eterna: don’t forget you are an Agnelli

Questa calcistica agnellesca è una storia massimamente balzachiana, in cui chi ha il nome non ha il ruolo, e viceversa. La storia che è riuscita a mettere d’accordo tutti, squadre e tifosi e governi, Macron e Draghi e l’uomo della strada contro Andrea Agnelli e il suo progetto imperiale della Superlega rimarrà come una delle più pazze di questa già strana epoca covidica.

 

 

Chissà cosa farà adesso l’Agnelli col nome giusto ma sempre al posto sbagliato, mentre il titolo della squadra di famiglia crolla e gli equilibri, nella famiglia medesima, traballano ancor di più. Ma ecco il romanzo: AA è nato il 6 dicembre 1975 a Torino: figlio di  Umberto, fratello più piccolo dell’Avvocato, e di Allegra Caracciolo di Castagneto, cugina prima di Marella, e pure figlia di Anna Visconti, sorella maggiore di Luchino. Dna bestiale, quarti di nobiltà a strafottere, unico della sua generazione a chiamarsi con l’augusto cognome, il giovane Agnelli ha una sorella, Anna pure lei, schiva come lui: è cresciuto alla Mandria, il compound golfistico torinese dove abitava Umberto, e lì ecco già tutta una diversità e una bizzarria: perché mai abitare dentro un golf, in una casa per di più “brutta”, dice un amico di famiglia.

 

Ma brutta come? “Tipo Olgiata. Ma con delle statuette di Ceroli”. Donna Allegra, oltre alla beneficenza da casa reale, al piglio più che regale, che fa? “Fuma e tifa. Tifa e fuma. Sta sempre allo stadio”, dice l’agnellista, come sottintendendo che tifo e fumo, passivi o attivi o versatili, non abbiano fatto bene all’educazione sentimentale del giovane Agnelli. Educazione rigida, senza vezzi, da ramo secondario, duchi di York in attesa di un’abdicazione che non verrà mai. Cena alle 19,45 ogni giorno che dio manda in terra, con margine massimo di ritardo di 15 minuti.  Niente elicotteri né yacht come il ramo principale, ma tranquillità straborghese. Niente macchinone ma al massimo una  Croma di serie.

 

 

L’aneddotica è infinita, con la cattiveria che solo a Torino conoscono: quando Umberto in prime nozze sposa Antonella Bechi Piaggio, erede della Vespa, il fratello maggiore dirà: “un matrimonio a sei ruote non può funzionare”; salvo poi arrivare in Ferrari un po’ “lungo” al matrimonio, travolgendo la tavolata. Il rapporto tra i due fu complessissimo e doloroso: Gianni, molto più grande, epopee guerresche,  vivere inimitabile e dannunzianesimo. Umberto, invece, così chiamato in onore dello sfortunato re di Maggio che gli fu padrino di battesimo (bad karma), non regnerà manco un mese.

 

Quasi un figlio: eterno erede, sempre pronto ad aspettare il turno suo, che appunto non arriverà mai. Nel frattempo, subisce tutto e non sbaglia niente. Uomo di impresa e di finanza, mentre Gianni pensa ai revers e a Balthus e al defatigante mito di sé stesso, Umberto tiene in piedi la baracca. Anche, alla fine, prima di morire, sarà lui a scovare nell’ultima provincia dell’impero un misterioso manager in maglione italo-canadese, Sergio Marchionne, che con nemesi sartoriale alla fine salverà la Fiat. Però, in vita, a Umberto non glie ne va bene una:  Umberto alleato con Ghidella, l’uomo che porta le auto Fiat ai massimi successi con la Uno, la Croma, la Thema. Umberto per questo  nemico giurato di  Romiti e della galassia Mediobanca che alla fine lo terrà per sempre ai margini. Umberto mandato a fare il deputato semplice della Dc (con Luca  Montezemolo come capostaff). Umberto subisce ancora.

 

 

Se fossimo in The Crown, Gianni sarebbe la Regina Elisabetta, Umberto un po’ Margaret e un po’ Carlo. Alla fine, capito che il suo turno non arriva, si accorda perché almeno suo figlio, Giovanni Alberto detto Giovannino, sia il continuatore della stirpe. Bello, internazionale, laurea e mascella americane, una specie di John John Kennedy torinese (subito tirato in ballo da Veltroni come fortissimo punto di riferimento della sinistra), su di lui si abbatte una tragedia appunto kennediana, muore di un cancro fulminante giovanissimo. A quel punto la storia della dinastia cambia di nuovo strada: il continuatore sarà Jaki, che non si chiama Agnelli ma Elkann (e al vecchio Avvocato non riesce di dare il suo nome alla stirpe). 

 

Già, il nome, l’eterna questione: don’t forget you are an Agnelli, dicevano le cameriere, innamorate o no. Ma chi se ne ricorda. La storia la fa il ramo vincitore, e adesso anche i film. Raccontano al Foglio che la morte di Giovanni Alberto l’abbia molto segnato, Andrea, essendo stato per lui una figura di riferimento: molto più grande e strutturato, insomma come Gianni per Umberto. “Magari” si intitolava il bel film di Ginevra Elkann. Nel senso di “What if”, chissà cosa sarebbe successo se Giovannino non fosse morto.

 

Chissà che sentimenti, però, Andrea. Sicuramente, dice chi lo conosce, c’è  questa componente di revanscismo. Anche per  il padre. L’unico col nome giusto al posto sbagliato. Non aiutato, tra l’altro, dalla genetica. Accanto agli Elkann e ai loro derivati, con quei fisici longilinei e le facce angeliche, che impalmano altri casati siderali generando creature boccolute, Andrea ostenta il monociglio color di pece da Elio e le Storie tese. Al matrimonio di Jaki, nel settembre 2004, c’è una foto che lo ritrae insieme allo sposo e a Lapo: lui non c’entra niente. Un’aria buona e un po’ spersa, “l’occhio a palla agnellesco”, osserva sempre l’amico perfido, le maniche della camicia troppo lunghe sotto il tight, il nodo della cravatta troppo grosso. Se fossimo nella famiglia reale inglese lui sarebbe Eugenie o quell’altra, insomma Genoveffa e Anastasia, magari buonissime e intelligentissime ma non decorative come i cugini del ramo giusto. E battere il ramo giusto, dimostrare d’essere all’altezza, sarà fosse la dimensione di questo quarantacinquenne cresciuto tra campo da golf e  stadio.

 

 

Anche lui quadrato, come il padre, anche lui senza fronzoli, lontanissimo dai dandismi e dall’asciuttezza però glamour del ramo Elkann. Dirazza anche in tema di matrimoni: non continua l’abitudine di araldica degli innesti come Jaki (che sposa una Borromeo), si prende invece un’inglese, Emma Winter, da cui avrà due figli, Giacomo e Baya, e poi, con grande scandalo, si metterà con Deniz Akalin, modella turca e compagna di uno dei suoi migliori amici, il responsabile marketing della Juventus, Francesco Calvo. Da lì, altri due figli, Livia Selin e Vera Lin. Un fatto che nella società torinese, che non brilla per tolleranza, farà scalpore.

 

Scalpore sotterraneo, ovviamente. Cercare dei virgolettati sugli Agnelli è più difficile che fare un vaccino regolare: però al massimo dello sforzo, alla trentesima telefonata, ti dicono: “ruvido”; “molto ruvido Andrea”. Basta. Cursus honorum del ruvido: studente tranquillo e riservato alla Bocconi, poi fa un’esperienza alla Ferrari, poi alla Philip Morris dove incontrerà la futura moglie, poi all’Ifil, la finanziaria di famiglia, poi nel cda della Fiat. Ha un sacco di soldi, potendo contare su una delle  quote più grosse dell’accomandita di famiglia, la Giovanni Agnelli, la scatola che sta sopra all’impero, e che controlla a cascata Exor, Stellantis cioè le auto, Cnh cioè camion, e Ferrari, Juventus, l’Economist, il colosso assicurativo Partner Re, e infine Gedi (Repubblica, Espresso e Stampa).   Davanti a lui, come quota, solo l’erede, John Elkann detto Jaki. Quello col matrimonio giusto e il tight giusto.

 

 

L’Agnelli sbagliato invece oltre alla quota dell’impero eredita anche le notevoli sostanze del padre Umberto, che era un avveduto investitore. Come lui è un gran lavoratore. Però sotto il tight sbagliato batte un cuore: sentimenti e risentimenti. Il punto di caduta, prima del progetto Superlega (pensiamo alle battute che avrebbe fatto Gianni!), si ha nel 2005, quando la Fiat era a un passo dalla catastrofe. In poche parole, gli enormi debiti contratti con le banche non potevano essere rimborsati, così queste stavano per trasformarsi in grosse azioniste; significava, per la famiglia, perdere il controllo e aprire la porta a potenziali soci esterni che l’avrebbero potuta spezzettare: insomma, la fine della Fiat di proprietà Agnelli. E lì scatta la fondamentale saga dell’equity swap: cioè la spericolatissima operazione per cui gli Agnelli per pochi minuti “vanno sotto”, salvo riemergere immediatamente.

 

L’impero è salvo, si prendono una sgridata dalla Consob, qualcuno viene condannato poi prescritto, ma che importa, la storia va avanti. Ma in quel momento fatale alla stirpe, in cui veramente la storia centenaria della Fiat e della famiglia rischia di andare all’aria, il placido e ruvido Andrea pensa bene di dare un’intervista proprio a questo giornale che come impatto è tipo quella di Meghan e Harry a Oprah Winfrey (Oprah in questo caso è  Marco Ferrante). Invece che appoggiare la famiglia dice, con molta nonchalance, che va benissimo far entrare le banche, e che è l’occasione giusta per cambiare capitolo, per creare una public company all’americana. "La Stampa", il giornale di casa, reagisce con delicatezza:  Andrea Agnelli, scrive, “parla  a titolo personale”, e il suo ruolo è quello di “stagista” all’Ifil. Fine.

 

 

Lo stagista probabilmente aveva un piano: un classico divide et impera; porsi, in quanto unico Agnelli rimasto, come ago della bilancia in un panorama e un azionariato frastagliato. Le cose però non si frastagliano per niente e gli Elkann tengono saldo il comando. Ma la freddezza a quel punto coi cugini col nome sbagliato e il ruolo giusto esplode. Si odiano? “Ma no”, dice al Foglio una persona di famiglia. “All’inizio, quando Andrea ha avuto il suo periodo Edoardo, i rapporti sono stati molto burrascosi. Ma poi è addivenuto a più miti consigli e oggi Jaki lo gestisce”. Una frase di rara perfidia: il periodo Edoardo, definizione micidiale, si riferisce al figlio dell’Avvocato che tra un pellegrinaggio in India e una conversione all’Islam sproloquiava di assetti aziendali sui giornali, finché fu chiaro che era inadatto a qualunque incarico.

 

E in quel “lo gestisce” c’è tutto il rapporto di subalternità. Con l’Avvocato, Andrea non ebbe quasi nessun rapporto, quando è morto lui aveva solo 27 anni. “Il vecchio Agnelli diceva: ‘quel ragazzo ha troppe ciglia e troppi denti’”, ecco là un’altra frase capace di rinsaldare affetto generazionale. “Il fatto è che Andrea è davvero un’altra razza: ruvido – arieccolo – e poi: senza classe”, che per un Agnelli è la peggiore delle condanne. Come Umberto? “No, Umberto aveva classe, lui no”. E’ il paradosso del nome e la rivincita della personalità sulla genetica; nipote di Luchino Visconti, un dna che a Jaki gli fa una pippa. Eppure. Eppure è stato bravo, almeno a gestire la Juve, e questo è l’altro paradosso di tutta questa storia pazzesca.

 

 

Perché sotto la gestione di Andrea la squadra bianconera ha vinto tutto il vincibile, nove scudetti, e però più coppe vince e più soldi perde, rendendo sempre più improponibile ed esoso tenere quella squadra in famiglia; è finita, si sa, l’epoca delle squadre sentimentali, si vede cosa è successo al Milan dei Berlusconi e all’Inter dei Moratti. Anche perché nel frattempo l’impero Fiat è sempre meno famigliare, e sempre più internazionale, c’è meno spazio per i ricordi e le glorie, e sempre più attenzione a ricavi e utili.  

 

Dicono sempre al Foglio le gole profonde agnellesche che però proprio per questo quello del giovane Andrea non è stato certo un golpe, “quest’idea della Superlega era un progetto a cui stava lavorando da un po’, la famiglia tutta era informata e lo appoggiava in pieno”, anche perché a breve Jaki dovrà procedere a un aumento di capitale, cioè buttarci altri soldi, nella Juve, dunque i 2-300 milioni di euro che sarebbero entrati come signing bonus, come fiche di ingresso dell’operazione Superlega, sarebbero stati benvenuti e benedetti. Anche il monociglio sarebbe stato per sempre perdonato.

 

 

E così  appare ancor più bizzarra tutta l’operazione, che non è ruvida, di più: prima annunciata con uno stringato comunicato finanziario, poi ritirata in sole 24 ore. Mah. Ma oltre la ruvidezza è chiaro che è implausibile, come si vede, anche quello che qualcuno sussurra, cioè che potrebbe sarebbe stata una polpetta avvelenata di Jaki per il cugino irsuto. Irsuto e capace, certo, e dunque voglioso e meritevole un giorno di nuovi prestigiosi incarichi nell’impero (uno non a caso, la Ferrari). Certo, se Andrea avesse vinto, avrebbe vinto tutta la famiglia. Se avesse perso, e ha perso, avrebbe perso da solo, per parafrasare la vecchia massima di Gianni Agnelli quando Berlusconi scese in campo a nome degli imprenditori. Però così un pochino perde anche Jaki. E manco un pochino. Di certo Andrea, l’ultimo Agnelli, perde anche un po’ la faccia: quella faccia buona che però stonava sempre nelle foto di famiglia.
 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).