Giovanni Gastel, che poteva essere semplicemente se stesso, cioè una persona squisita

Fabiana Giacomotti

Fotografo di rara sensibilità, gentiluomo extraordinaire. Avrebbe compiuto sessantasei anni a dicembre

Una decina di giorni fa, Giovanni Gastel diceva di annoiarsi e che cosa erano tutte quelle precauzioni, sebbene lo sapesse, che per lui un attacco del Covid sarebbe stato quasi certamente fatale. Aveva superato molti problemi ai polmoni una decina di anni fa, aveva smesso di colpo di fumare. E invece. Il Covid, schifoso, fa così: agisce di soppiatto, come i generali della dinastia Ming che redassero il celebre trattato dei trentasei stratagemmi. Domenica scorsa l’hanno intubato e noi ci siamo dette sarà per precauzione ulteriore, dopotutto fumava, l’avremmo chiamato appena fosse uscito, avevamo una cosa da chiedergli e ci ripromettevamo di farlo di persona, in quell’ufficio pieno di libri e immagini e luce dove ci avrebbe accolte col suo sorriso raggiante di generosità d’animo: “Che gioia, che bello che tu sia qui”.

Giovanni Gastel, fotografo di rara sensibilità, gentiluomo extraordinaire, è morto poche ore fa, pomeriggio assolato del 13 marzo 2021, con i polmoni divorati dalla forma più aggressiva del virus, nell’ospedale allestito in Fiera e non riusciamo, non riesco, a scriverne al passato. Avrebbe compiuto sessantasei anni a dicembre, era figlio di Giuseppe Gastel e Ida Visconti di Modrone, dunque era nipote di Luchino Visconti, che era la ragione per cui non aveva mai pensato di fare il regista, ma al tempo stesso era stato allevato alla sensibilità e a uno sguardo profondo sulle cose e le persone.

 

Aveva iniziato a lavorare da Christie’s, a Londra, negli Anni Settanta, tappa di molti altri ragazzi “benissimo” di Milano, e poi si era dedicato al racconto fotografico. Una natura morta per Annabella, nei primissimi Anni Ottanta, a cui sarebbero seguiti il Vogue Italia dell’ineffabile coppia Flavio Lucchini e Gisella Borioli, che avrebbe seguito a Mondo Uomo e Donna, diventando presto quel genere di fotografo di fama internazionale ricercato da tutti eppure, nel suo caso, sempre disponibile, mai divo.

Non avendo nulla da farsi perdonare, nessuna ansia di riscatto o di riconoscimento sociale, poteva essere semplicemente se stesso, cioè una persona squisita. Scattava di preferenza in bianco e nero, ma accidenti quanti colori riusciva ad infondere in quell’apparente dicotomia, fra quegli opposti. Ce ne rendemmo conto pochi mesi fa all’apertura della sua retrospettiva al Maxxi di Roma, osservando non tanto i molti ritratti esposti (fra cui quello di Barack Obama, di incredibile valore introspettivo), quanto le facce dei romani accorsi ad ammirare quei volti perlopiù milanesi, in quel bianco e nero così lontano dal loro gusto medio. La mostra si intitolava “People I like”: la gente che mi piace. Gliene piaceva moltissima. Diceva che “fotografare è una necessità e non un lavoro. Rendere eterno un incontro tra due anime mi incanta e mi fa sentire parte di un tutto”.

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