Catricalà, i Parioli e il male di vivere dei grand commis

Michele Masneri

La tragedia inspiegabile, mentre si assiste al trionfo della nomenklatura di stato

Sembra Gadda, o uno di quei romanzi sul male ai quartieri alti. Parioli, via Bertoloni, negozi di vestiti sartoriali, ambasciate, la clinica Mater Dei dove nascono i figli dei Totti e dei nobili.

 

Ha scelto di uccidersi qui Antonio Catricalà, nel fatto che scuote Roma in un primo giorno di mezza primavera.  Avvocato, avvocato dello Stato, consigliere di Stato, e poi sottosegretario a palazzo Chigi, capo di gabinetto, viceministro, capo dell’Antitrust. Uomo di Stato e di mondo.

 

La notizia scuote Roma, soprattutto la Roma dei boomer a cui il nome Catricalà evoca gioventù e quella forma di potere peculiare di grandi figure del passato, dei – per rendere l’idea bisogna ricorrere a una parola straniera - grand commis. Super funzionari, personaggi galanti e mefistofelici, che avevano costruito carriere a far funzionare quella complicata macchina che è lo stato. Ingegneri, in un certo senso.

 

Poi  vituperati nella fase del sovran-populismo, con relativo cambio di denominazione, “deep state”, canaglie che impediscono agli animal spirits eletti di fare come gli va (e s’è visto com’è andata). Ora tornati velocemente in auge, l’onore ripristinato, da Draghi che li richiama in servizio; Draghi tra l’altro vicino di casa, pochi isolati di distanza da via Bertoloni.

 

E “Strane dicerie contristano i Bertoloni”, è il titolo di un racconto, appunto gaddiano, finito nella “Cognizione del dolore”, di ricchi possidenti angustiati, e chissà quale tipo di dolore avrà colpito questo anziano ma non vecchio grand commis, che non aveva ancora 70 anni ma aveva ricoperto tutto il ricopribile in un cursus honorum eccezionale ma classico: studi eccellenti al Sud, in quel Sud per decenni gran serbatoio di funzionari: la Sicilia dei Manzella, la Campania dei Mazzella, la Puglia dei Gifuni, l’Abruzzo dei Letta: insomma la Silicon Valley dei Civil servants.

 

E Letta era il suo grande mentore e sponsor: (“un semidio”, lo definì l’allievo, accettando il premio “La mela d’oro”, quei premi di cui Roma abbonda). Il lettismo era più forte anche della calabresità. Nato a Catanzaro, da Celestino, storico avvocato mazziniano, che gli trasmetterà la fede repubblicana-socialista e tutto il resto, Catricalà junior per le vacanze andava però a Punta Ala, meta non scontata per un calabrese. Ma lì aveva casa anche Letta. Niente ritorni all’amato borgo, dunque.

 

E col Sud, relazione complicata: raccontano che rifiutasse la retorica meridionalista, e con quel mondo lì, mondo d’appartenenza ma soprattutto di richieste d’aiuti e di benemerenze, non volesse avere troppi rapporti. “Dì pure che ho un brutto carattere”, era il messaggio ai collaboratori che le smistavano (ma non era vero per niente, era invece ridanciano; gran collezionista di barzellette, gradite a Berlusconi, che l’amò, e lo volle a Palazzo Chigi). Di sicuro non cupo o tendente alla depressione, la parola che tutti nominano adesso, come se la decisione indicibile, togliersi la vita, fosse giustificabile con un carattere tendente all’umor nero.

 

L’uomo infatti era positivo, soprattutto soddisfatto, molto sicuro di sé. Qualche presenzialismo tv, ai tempi d’oro, smussato da occhialetti ovali da intellettuale; passione per gli abiti dei Caraceni e per gli orologi preziosi, e per le due figlie. Una volta capitai nel suo ufficio dell’Antitrust, sempre ai Parioli (improbabile grattacielo vetroso, da San Paolo del Brasile). L’ufficio suo stava su all’ultimo piano, grande quanto un’astronave, e mi colpì la sicurezza con cui parlava di questioni privatissime, visite mediche di una figlia, al telefono, davanti a uno sconosciuto seppur cronista generico (sicurezza del potere).

 

E poi soprattutto un grande plastico con trenino sibilante, ancor più bizzarro. Forse serviva ad alleviare la noia, o forse era una protesta e un capriccio contro quella carica non voluta, arrivata al posto di un’altra forse più ambita (la Consob, ma si mise poi di mezzo Tremonti). Eppure è il tipico rovescio di fortuna che l’uomo di mondo e di Stato sa affrontare, con premi di consolazione, consigli di amministrazioni, onori minori ma redditizi; era tornato pure, con successo, all’avvocatura. E a 70 anni a Roma sei un ragazzino.

 

Dunque pare incredibile quello che in tanti oggi riferiscono: che a suscitare la depressione avrebbe contribuito anche un’altra promessa non mantenuta (del destino). Quella di tornare, per la terza volta, da sottosegretario alla presidenza del Consiglio, dopo Berlusconi e Monti, con Draghi, in questo gran ritorno di nomenklature efficienti dopo la sbornia dell’uno-vale-uno. Il Pride del deep state.

 

Invece niente: la tragedia, nella bella casa di via Bertoloni, trovato dalla moglie, Diana Agosti, capo Dipartimento Politiche europee a palazzo Chigi, in attesa di riconferma. Riserva della Repubblica anche lei, anche lei in attesa, in questo mondo di attese che sono queste carriere e queste vite. Lui aveva sempre atteso poco, a dire il vero: laureato con lode a 22 anni, primo al concorso nazionale in magistratura, poi tutta una serie di primati. Adesso il suicidio, inspiegabile sempre: ma in alcuni casi ancora di più.

 

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