Emergenza migranti? / 3. Gli impatti economici

Carlo Stagnaro

Perché l’immigrazione fa bene all’economia italiana

L’opposizione politica all’immigrazione – quando non è esplicitamente razzista – muove principalmente dal timore che gli immigrati “rubino i posti di lavoro” agli italiani e determinino un costo per le casse pubbliche (oltre, forse, alla percezione di un nesso tra immigrazione e criminalità che, come abbiamo visto nel post precedente, è tutt’altro che dimostrato).

Sul tema dell’impatto sui conti pubblici, è intervenuto recentemente il presidente dell’Inps, Tito Boeri, riprendendo peraltro posizioni già espresse in precedenza. Boeri ha ricordato che, in un contesto di declino demografico, gli immigrati rappresentano una indispensabile aggiunta alla nostra forza lavoro, nonché un puntello difficilmente sostituibile della sostenibilità del nostro sistema pensionistico. Si può discutere sull’opportunità di tale intervento, ma nel merito c’è poco da aggiungere. L’impatto dell’immigrazione è positivo anche se si considera la fiscalità in generale – ossia la differenza tra tasse e contributi versati e benefici ricevuti – come mostrano Enrico Di Pasquale, Andrea Stuppini e Chiara Tronchin sulla base dei dati del Dossier statistico immigrazione.

Contrariamente a quanto molti pensano, in effetti, l’effetto fiscale netto dell’immigrazione è positivo nella larga maggioranza dei paesi, come mostra il seguente grafico tratto da questo lavoro dell’Ocse:

Il grafico mostra, per i paesi sviluppati, una stima della posizione fiscale netta delle famiglie che abbiano capifamiglia immigrati, nativi o misti (cioè un immigrato e un nativo). L’Italia è uno dei paesi per i quali il contributo fiscale netto delle famiglie di immigrati (e miste) è positivo, e maggiore delle famiglie native (ancorché inferiore alle famiglie miste). Questa differenza può dipendere da molte ragioni: per esempio il tasso di occupazione femminile nelle famiglie di immigrati o miste può essere superiore. Ma il punto essenziale è che gli immigrati non sono – in media – un peso per l’erario, ma un contributore netto.

Inoltre vi è evidenza che gli immigrati tendano ad avere minore dipendenza dal welfare rispetto ai nativi. La ragione è banale: i migranti si spostano per lavorare! Attenzione, perché questa banale constatazione ha una conseguenza molto forte: mentre ci si può attendere che i cosiddetti migranti economici abbiano un impatto fiscale netto positivo, lo stesso non è necessariamente vero per i rifugiati che, in forza del loro peculiare status giuridico, tendono a essere imprigionati in una bolla di sostegno pubblico. Paradossalmente, dunque, questioni umanitarie a parte, in punto di convenienza economica dovremmo accogliere i migranti economici con un entusiasmo molto maggiore rispetto ai profughi (per i quali, ovviamente, entrano in gioco considerazioni di natura umanitaria). 

La questione più generale delle conseguenze economiche dell’immigrazione è assai ampia. Vi sono, tuttavia, alcuni aspetti che si possono ragionevolmente ritenere punti fermi. In primo luogo, per citare un rapporto Ocse, “[i]mmigrants are neither a burden to the public purse nor are they a panacea for addressing fiscal challenges. In most countries, except in those with a large share of older migrants, migrants contribute more in taxes and social contributions than they receive in individual benefits”. Secondariamente, in relazione agli effetti delle migrazioni sul mercato del lavoro, come emerge da una review della letteratura, “The likelihood and magnitude of adverse labor market effects for natives from immigration are substantially weaker than often perceived. Within the large empirical literature looking at the effects of immigration on native employment and wages, most studies find only minor displacement effects even after very large immigrant flows. On the other hand, some more recent studies have found larger effects, and many studies note that the negative effects are concentrated on certain parts of the native population. The parts of the population most typically affected are the less-educated natives or the earlier immigrant cohorts – that is, those who are the closest substitutes to the new immigrant flow currently experienced by Europe”.

In sostanza, i migranti non “ci rubano il lavoro”, ed entrano in competizione con la popolazione nativa solo nella misura in cui quest’ultima ha fatto scarsi investimenti in capitale umano. In questa circostanza, gli effetti avversi dell’immigrazione – che sono comunque più che bilanciati dalle sue conseguenze positive nel lungo termine – non sono l’origine del problema, ma ne rappresentano un sintomo. E, in particolare, fanno emergere tutti i limiti dei sistemi educativi e di formazione che, nel nostro paese, si sta faticosamente cercando di allineare agli standard di una nazione moderna. Dunque, chi è preoccupato dalla competizione salariale dei migranti, farebbe meglio a rivolgere la propria ansia verso la scuola e l’università: non servono politiche dell’immigrazione più restrittive, ma più buona scuola e buona università, mercati del lavoro più flessibili, e politiche che stimolino la dinamica della produttività. Il modo migliore per prevenire la guerra tra poveri – che in parte oggettivamente c’è, e che spiega la sensibilità politica del tema immigrazione – è riattivare l’ascensore sociale.

Nel complesso, l’immigrazione – pur potendo avere dei costi di breve termine o determinando conseguenze redistributive che vanno gestite sul piano politico – ha ripercussioni positive sull’economia in generale (vedi anche qui e qui per una visione più specifica sull’Europa dopo la crisi dei rifugiati). I principali canali attraverso cui ciò avviene sono l’incremento (tipicamente associato con la riduzione dell’età media) della forza lavoro, i possibili guadagni di produttività conseguenti all’inserimento di nuova forza lavoro e la possibilità di riempire nicchie nelle quali precedentemente l’offerta di lavoro non era sufficiente. I guadagni di produttività possono derivare sia dalle skill degli immigrati, sia dal fatto che essi, coprendo una specifica domanda di lavoro (per esempio, la cura degli anziani), liberano tempo e risorse per impegnare la popolazione nativa in attività relativamente più produttive.

Quindi, senza immigrati un paese come l’Italia avrebbe seri problemi nella tenuta del sistema fiscale e pensionistico: più importante, gli immigrati danno un grande contributo alla creazione di ricchezza nel nostro paese. Nel prossimo e ultimo post, trarrò le implicazioni di policy che logicamente derivano dalle premesse di fatto illustrate in questo e nei precedenti post (uno e due).

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