Foto LaPresse

L'emozione di una marcia per la pace a piedi per l'Afghanistan

Paola Peduzzi

La marcia che sta attraversando il paese, con dei selfie che a guardarli non ci credi, è nata nel marzo scorso dalla stanchezza

Ciao cara, vado a raggiungere i miei amici, e Mohammed è salito sull’autobus, tre cambi nella cucitura sotto il braccio, tre rosari in tasca, e la voglia di arrivare in fretta, di raggiungere gli altri alla marcia che sta attraversando l’Afghanistan e che dice una cosa soltanto: siamo stanchi della guerra. Ogni giorno arriva qualcuno, s’avvicina e si mette a marciare, davanti al gruppo c’è sempre un ragazzino, il più giovane di tutti, diciassette anni e un carrello con dentro un kit per le emergenze, un paio di stampelle, gli ombrelli, un tappeto di plastica, alcuni sandali spaiati, un pannello solare che serve per ricaricare i telefoni. Le armi sono vietate, ma non c’è stato nemmeno il bisogno di dirlo, la marcia che sta attraversando l’Afghanistan dal marzo scorso nasce dalla stanchezza, da padri che hanno seppellito figli, figlie, mogli genitori, fratelli, cugini: la guerra è orrenda, la guerra ci ha distrutto, colpiteci se volete, attaccateci, noi vogliamo soltanto la pace. La protesta è nata dopo un attentato, a fine marzo, nella provincia di Helmand: otto morti, cinquanta feriti. La sera dopo cinque persone hanno messo una tenda, hanno annunciato uno sciopero della fame, ripetevano soltanto una frase: “Il nostro sangue è finito”. Poi hanno deciso di partire, direzione Kabul, passando per villaggi e città, attraversando zone controllate dai talebani (soltanto in una parte gli è stato consigliato di non entrare), cantando per tenersi su, tacendo durante il mese di ramadan, quando la marcia è diventata più lenta: venti chilometri al giorno “soltanto”, senza bere e senza mangiare, rifocillandosi alla sera nelle case degli afghani, dei talebani, siamo tutti insieme, siamo tutti stanchi. Si sono raccontati ogni cosa, i settanta uomini che hanno deciso di attraversare il paese a piedi: avevano una vita prima che iniziasse la guerra, nel 2001, poi i sogni e le ambizioni sono state fatte a brandelli, dalle bombe degli alleati certo, ma anche e soprattutto dalla guerra civile, che è poi la misura della disperazione, e della stanchezza di questi marciatori che sono arrivati a Kabul, stremati e disidratati, nei giorni pazzeschi della “tregua”.

 

Per la fine del ramadan, i talebani hanno indetto una tregua, il governo afghano pure, e così venerdì sono arrivati i miliziani nella capitale, hanno consegnato le armi, e sono entrati in città. Balli, canti, abbracci, selfie, regali, racconti, indicazioni: mi hanno detto che laggiù c’è il gelato più buono di tutto l’Afghanistan, mi ci porti? Sembrava un sogno, molti hanno postato sui social le immagini degli incontri, sorrisi accaldati e lo stupore negli occhi di tutti (anche nei nostri), la gioia che dura poco e per questo è irresistibile, è indimenticabile, siamo davvero qui insieme, soldati delle forze governative con talebani disarmati, afghani con afghani: la normalità, quel lusso che chi vive in pace non sa apprezzare.

 

La festa è stata rovinata da chi vuole solo conflitti, e i selfie li fa con i cadaveri dei nemici uccisi: due attentati in due giorni, firmati dallo Stato islamico, che in Afghanistan cerca spazi e accordi omicidi e che ora definisce “apostati” persino i talebani, soprattutto i talebani, gli alleati mancati. Una quarantina di morti, decine di feriti, ma la festa a Kabul e in molte altre città non si è fermata, perché se hai la guerra appiccicata addosso da quando hai memoria non c’è attentato che possa placare la tua disperata richiesta di pace. I marciatori non hanno smesso di raccontare le loro storie, c’è l’ex campione di bodybuilding che mostra le foto della vittoria, con quel corpo enorme lucido di olio che fa ridere tutti, c’è il marito che rifiuta l’ultimo dolce perché sua moglie lo sgrida se non torna a casa più magro. Ci sono le piaghe sui piedi e la voglia di ripartire subito, è ancora tanto l’Afghanistan da visitare, e anche ora che la tregua è finita – il governo la prolunga fino a domani, ma i talebani hanno rifiutato la proroga – resta la speranza che possa davvero succedere, il miracolo della pace voluta dal basso, la foto ricordo di un momento in cui tutto è sembrato possibile, abbracciati mangiando un gelato.

Di più su questi argomenti:
  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi