In ricordo delle vittime della strafe alla Marjory Stoneman Douglas High School. Foto LaPresse

Senza un fucile d'assalto, il mostro è meno mostruoso

Paola Peduzzi

La strage nella scuola in Florida e quello status quo sulle armi che deforma i volti degli adulti

Si asciugano il volto con un gesto rapido, sempre lo stesso, sempre uguale, hanno quell’età magica in cui le lacrime non ti deformano, non sono bambini, non sono adulti, sono adolescenti con gli occhi lucidi e rossi, che singhiozzano mantenendo una certa fierezza: ci state rubando la vita, dicono, alzando lo sguardo. I ragazzi della scuola di Parkland, in Florida, partecipano a più funerali in un giorno, da giorni: diciassette vittime, anche il professore di geografia che ha salvato la sua classe, chiudendo la porta poco prima che l’assassino piombasse con la sua furia armata e la scaricasse solo su di lui, trentacinque anni, il prof. arrivato da pochi mesi. Il padre che scandisce “hai.ucciso.mia.figlia” e non riesce a ripetere altro, “è l’unica cosa che mi dice la mente, la sento di giorno, la sento di notte”. Si va dritti alla follia con questo rimbombo, gli psicologi dicono che non esiste un’età buona per dotarsi della capacità di elaborare un lutto, e certamente non è questa, con gli amici morti in massa, morti per la ferocia, e non diteci che l’ex studente stragista era un malato di mente, che i mostri ci crescono accanto, non c’è molto da fare. Senza un fucile d’assalto, il mostro è meno mostruoso, rispondono i sopravvissuti, quando dopo l’ultimo funerale organizzano sit-in, i cartelli “non sacrificateci”, quei discorsi arrabbiati e disperati, ci dovete ascoltare.

  

Di strage in strage l’America si interroga su se stessa, su questi ragazzi che, come ha scritto Maureen Dowd sul New York Times, sono diventati un mero “danno collaterale” di una cultura fondata sul Secondo emendamento, sulla libertà di maneggiare armi perché come mi difendo io non mi difende nessuno. Il danno collaterale ha sempre quelle lacrime dignitose, quella mano che passa rapida ad asciugare il viso, quei vestiti neri, corpi sottili che si sorreggono l’un l’altro, e che sorreggono genitori che crollano a ogni passo, padri e madri deformati, loro sì, dalla certezza che nulla sarà più come prima. Di strage in strage, queste immagini si accavallano una all’altra, storie che si assomigliano e invece erano uniche, e intorno non cambia niente. Niente. Faremo, agiremo, non tollereremo. Non cambia niente. Il New York Post, tabloid trumpiano di proprietà di Rupert Murdoch, ha scritto a caratteri grandi: “Mr President, please act”, c’è bisogno di una legge per il controllo delle armi, altrimenti le stragi non finiranno mai. I ragazzi di Parkland si stanno organizzando, scrivono sui giornali, spiegano che non chiedono molto, soltanto di non aver paura di andare a scuola o a un concerto, e con loro gli insegnanti e i genitori vogliono partecipare a una grande manifestazione a marzo a Washington, per dire: salvate loro, salviamoci tutti.

    

Di strage in strage, si ricorda lo strapotere della National Rifle Association, le promesse fatte, le frasi penose prima dette e poi ritirate, i tentativi di introduzione di un “gun control” che non sono mai andati a buon fine, non perché c’è ostruzionismo, la destra delle armi contro la sinistra pacifista, ma perché al fondo c’è una questione culturale ben più radicata, che va dalla libertà individuale considerata sacrosanta a un immaginario popolare cresciuto con John Wayne. Quando Barack Obama divenne presidente ci fu un aumento di vendite di armi, un nero alla Casa Bianca tirava fuori pregiudizi e paure che consideravamo sepolte, ma nemmeno Obama, oltre alla retorica, oltre a quelle frasi spezzacuore sui “beautiful babies” (il copyright è del più sensibile fra tutti, Joe Biden) uccisi nelle stragi mentre mangiavano la merenda a scuola, ha voluto fare nulla: l’opposizione politica non c’entra granché. Oggi Donald Trump sembra indaffarato altrove – e questa distrazione pesa – e chissà se troverà l’impeto, lui che vive di improvvisazioni, per affrontare quest’ultima strage con un occhio ai figli dell’America. Maureen Dowd dice che lei ha smesso di sperare, e nella sua condanna ci fa sentire complici, per tutto quel che anche noi, lontani dalle stragi e dal diritto a portare armi, non riusciamo a cambiare: “Se la vista di angeli assassinati non scalfisce la coscienza nazionale, c’è qualcosa che riuscirà a farlo?”. E’ “intollerabile” che la vita dei nostri figli sia considerata un “danno collaterale”: “Se una società cerca di proteggere uno status quo maligno, diventa deforme”, come i nostri volti di adulti quando piangiamo.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi