Sculture di Hillary Clinton e Donald Trump (foto LaPresse)

Trump ne combina una via l'altra, ma intanto ha reso Hillary quel che non voleva più essere: inevitabile

Paola Peduzzi
The Donald dice di essere stato attaccato per primo, su quel palco, si limita a difendersi, ma prendendosela con questi genitori feriti, con la madre che non ha parlato alla convention perché non riesce a gestire in pubblico il suo dolore, ha scatenato un’ulteriore reazione di dissenso nel partito.

L’anti intellettualismo, scrive Max Boot sul New York Times, è nato nel Partito repubblicano americano come una posa, un modo per differenziarsi dai democratici, che si ponevano come “il partito del popolo” e che si sono invece trovati a incarnare l’élite, secondo quella celebre definizione, che dà il titolo anche a un saggio appena pubblicato, di “limousine liberal”. Oggi però, scrive Boot, che è uno dei conservatori più ostili alla candidatura di Donald Trump, uno di quelli che si schierano con Hillary Clinton piuttosto che accettare lo scempio trumpiano, la posa dei repubblicani li ha resi davvero “the stupid party” – era una battuta, uno scherzo, ma con Trump in corsa per la Casa Bianca quel tic anti intellettuali e “anti sapere” è diventato peculiare a questa leadership. L’elenco della stupidera stilato da Boot è quello che imperversa sulle prime pagine dei siti e giornali americani: questo è stato “il fine settimana peggiore” per il candidato repubblicano, sentenzia Politico, non si fa che parlare della lite tra Trump e i coniugi Khan, genitori di un soldato morto nella guerra in Iraq che hanno parlato alla convention dei democratici a Philadelphia.

 

Trump dice di essere stato attaccato per primo, su quel palco, si limita a difendersi, ma prendendosela con questi genitori feriti, con la madre che non ha parlato alla convention perché non riesce a gestire in pubblico il suo dolore, ha scatenato un’ulteriore reazione di dissenso nel partito. Il suo compagno di ticket, il candidato vicepresidente Mike Pence, ha rilasciato un comunicato in cui ha celebrato questi due signori e il loro figlio morto: non ha citato, per decenza, il suo boss Trump. John McCain, senatore dell’Arizona che già era stato vittima dello scherno trumpiano, ha dichiarato che il candidato repubblicano non ha “una licenza illimitata alla diffamazione”. Se a questa polemica si aggiungono le dichiarazioni di Trump sulla Russia, in particolare la legittimità del presidente Vladimir Putin di annettere la Crimea, e il grande “no” pronunciato dai temuti fratelli Koch ai finanziamenti alla campagna di Trump (decisione che pare abbia già avuto ripercussioni poco positive nel mondo repubblicano per i due fratelli libertari detestati dai liberal) si capisce perché si è sparsa la voce che le foto nude della candidata first lady, Melania Trump, pubblicate domenica sul giornale-amico murdochiano New York Post, siano un diversivo concordato per levare Trump dal caos in cui si è infilato.

 

I democratici, che godono secondo i sondaggi di un “bump” post convention di quattro punti, non possono che gioire di questa catastrofe d’immagine, ma il coro anti Trump è ormai unanime: quel partito “Never Trump” che si è rivelato inutile durante le primarie si è trasferito sui media, ed è diventato ancora più martellante. Il candidato repubblicano sembra non curarsene, va orgoglioso della sua “abilità nel business”, del suo “buon senso” e dell’ispirazione che gli viene guardando i talk show in tv. Anzi: proprio questo semplicismo è quel che lo differenzia dal resto del suo partito e ovviamente dalla secchiona Hillary Clinton, e che ha già determinato il suo successo durante le primarie.

 

Nella grande divisione politico-culturale che si è creata in tutto l’occidente, che vede da una parte le élite e dall’altra “the people”, i custodi dell’ortodossia popolare contro i distruttori un po’ paesani e un po’ ignoranti, per ora le élite non hanno ottenuto granché. Il monito della Brexit è riecheggiato alla convention repubblicana di Cleveland come un mantra, la dimostrazione lampante di questa frattura. Trump vuole inserirsi in questo solco, è il-candidato-che-dice-quel-che-nessuno-osa-dire e intanto ha ottenuto che Hillary Clinton tornasse a essere quel che era, quel che non voleva più essere, per nessuna ragione, perché ha già pianto troppo in passato, perché ha già scoperto che così non si vince: inevitabile. Ma che un candidato inevitabile sia anche un presidente inevitabile ancora non l’ha scritto nessuno.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi