Jake Sullivan

Chi è il falchetto dalla parlata ammaliante che sta attaccato a Hillary (senza sassofono, per ora)

Paola Peduzzi
Jake Sullivan fa uno dei lavori più belli del mondo, è un secchione con un bel sorriso, sogna di tornare in Minnesota, da cui proviene, e nel frattempo plasma, senza farsi troppo vedere – ma tutti sanno chi è, anzi, tutti vorrebbero sapere meglio chi è – la visione del mondo del Partito democratico.

Jake Sullivan fa uno dei lavori più belli del mondo, è un secchione con un bel sorriso, sogna di tornare in Minnesota, da cui proviene, e nel frattempo plasma, senza farsi troppo vedere – ma tutti sanno chi è, anzi, tutti vorrebbero sapere meglio chi è – la visione del mondo del Partito democratico americano. Nato quando Jimmy Carter era appena stato eletto presidente degli Stati Uniti, Sullivan è stato scoperto da Hillary Clinton alle primarie del 2008, poi è entrato nel team di Obama per le elezioni presidenziali sempre di quell’anno: lo cercavano tutti perché era il migliore preparatore di dibattiti su piazza. Non c’è mai stata una lotta però su Sullivan: se c’è una cosa su cui sono andati d’accordo Obama e Hillary è che il ragazzo talentuoso andava trattenuto nell’Amministrazione.

 

Quando Hillary è stata nominata al dipartimento di stato, Sullivan è tornato da lei ed è diventato il capo del “policy planning”, l’ufficio in cui le intuizioni e i suggerimenti diventano strategia per definire il ruolo degli Stati Uniti nel mondo. Quando Hillary ha lasciato Foggy Bottom, Sullivan desiderava tornare in Minnesota, ma nessuno volle lasciarlo andare, e così gli offrirono di fare il capo consigliere di Joe Biden, il vicepresidente. E’ lì che è entrato nel team dei negoziatori americani che ogni due settimane incontravano gli iraniani per definire l’accordo sul nucleare, conquistandosi il nomignolo di “Iran man”. Ora Sullivan è il consigliere di politica estera della candidata presidenziale Hillary, e già si dice che se lei dovesse andare alla Casa Bianca lui potrebbe diventare il capo del Consiglio per la sicurezza nazionale. Falco più di quanto i democratici siano ormai da tempo, Sullivan crede nello “smart power”, quel mix di soft power e impegno militare che ha avuto molto a che fare con l’interventismo umanitario clintonian-blairiano degli anni Novanta.

 

[**Video_box_2**]Tutto quel che è accaduto in questi ultimi anni sul fronte esterno dell’America riguarda anche Sullivan, che infatti è appena stato convocato dal Congresso per testimoniare sul caso Bengasi, l’uccisione dell’ambasciatore americano Stephens che pesa sull’operato di Hillary ben più del tanto chiacchierato scandalo delle email. La testimonianza è durata sette ore, la versione hillaryana è sempre la stessa, ma Sullivan non deve aver tremato più di tanto, perché è uno che quando deve parlare in pubblico sa come essere ammaliante e convincente (sarebbe stato bellissimo vederlo mentre preparava Obama ai dibattiti con John McCain). Ha imparato a Yale, quando ha conosciuto il professor Harold Koh, l’avvocato liberal che oggi meglio di altri difende, per conto di Obama, la legalità degli attacchi con i droni, e che ha lavorato al dipartimento di stato con Hillary. Nella pausa dal governo che Sullivan infine si è preso l’estate dell’anno scorso prima di entrare nel team elettorale della Clinton, è tornato a Yale per stare con la fidanzata Maggie (che è la special advisor del senatore Joe Lieberman) e ha tenuto un corso con Koh sulla politica estera e la legge in cui gli studenti erano invitati ad argomentare i loro punti di vista come in un dibattito presidenziale. Lui li cazziava sempre: chi ha respirato l’aria della Casa Bianca non riesce poi a riadattarsi. Soprattutto perché Hillary se l’è portato in giro per il mondo presentandolo non come il suo consigliere, ma come “un futuro presidente degli Stati Uniti d’America”. Senza timori, senza competizione, anche se Bill come sempre le aveva dato il consiglio definitivo: “Quando Jake è arrivato a lavorare con me – ha raccontato Hillary – ho detto a mio marito che avevo trovato una star brillante che avrebbe fatto strada, e lui mi ha risposto: ‘Se per caso inizia a suonare il sassofono, inizia a preoccuparti’”.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi