Agosto si compie con le feste di Volturno, benefico Pater ventorum, la cui lezione è meglio imparare

Alessandro Giuli

    Il mese augusteo culmina nella celebrazione della Vittoria (domenica scorsa) ma possiamo dire che si è compiuto sabato, giorno dedicato a Volturno (Volturnalia), nume non senza rango visto che i Patres gli assegnarono un’incarnazione sacerdotale (flamen). Molto si è discusso e si discute ancora sull’identità di Volturno, gli etruschizzanti lo vogliono appunto etrusco (Voltumna), i naturalisti lo riconducono all’omonimo fiume toscano o addirittura al Tevere. Come spesso accade, l’etimologia svia o soccorre, illude chi vi si affida senza discernimento oppure suggerisce senza dire e senza nascondere, inducendo il ricercatore a impugnare il proprio intelletto (in te lego) come in uno slancio interiore, un cambio di passo direbbero oggi i più, se non perfino un cambio di stato: dal torpore del senso comune, quella passività cognitiva di ogni giorno che finisce per “sfamare la luna”, al barbaglio che tiene dietro allo sforzo cardiaco, al genio del silenzio. Ed eccolo qui, Volturno, quel volutare caratteristico delle “nuvole che si convertono in pioggia”, del cielo sereno d’un paesaggio montano nel quale irrompe il nembo tonante, della leopardiana “quiete dopo la tempesta”. Fino all’improvviso Terrae motus, forse, che però (attenzione!) è uno stato naturale dell’astro terrestre, governato da leggi superiori tali da costringerlo a girare intorno al prpprio asse, a orbitare intorno al Sole, e talvolta a scrollarsi di dosso la polvere accumulata da colui che della Terra dovrebbe avere cura, l’uomo. Il tutto non certo per il capriccio di un astro, ma in perfetto omaggio all’armonia dell’uni-verso.

     

    Sicché si dovrebbe piuttosto dire che Volturno agisce nell’interiore dell’uomo quando questi prende coscienza del dato di natura (il divenire) e dei suoi effetti sul dato di cultura (l’azione umana, fallibile e in questa epoca più che mai assoggettata a un dèmone desertificante). Se le cose stanno così, sempre a Volturno (in noi) è bene rivolgersi per trasformare il veleno della paura nel farmaco della conoscenza di sé stessi e del proprio rapporto con il cosmo vivente.

     

    Ma c’è di più, come ci ricordano i Padri: “Aulo Gellio, nelle sue Notti Attiche, racconta che durante una cena, cui era presente l’eruditissimo filosofo Favorino, si leggeva un carme latino nel quale era citato il ‘vento Iapigio’. I commensali chiesero all’ospite di istruirli su qual vento fosse, da qual parte spirasse e quale l’etimologia del termine inusuale; gli chiesero anche i nomi e le posizioni degli altri venti. Favorino descrisse il cielo ripartito in quattro regioni: exortum, occasum, meridiem, septentriones… Tertius ventus, qui ab oriente hiberno spirat – ‘Volturnum’ Romani vocant… quel vento che viene dal punto in cui il sole si alza al solstizio d’inverno, ed è appunto il nostro Volturnus”. Varrone, teste l’autorità di Ennio, rammenta l’attribuzione del flamine a Volturno, “un vento che deve avere un particolare valore e non solo sul piano della meteorologia. D’altronde, a dire di Ennio, Volturno già da tempo era considerato un dio e certamente un tal culto non poteva che essere riservato a una potenza numinosa”: la Potenza delle innumerevoli potenze ventose contenute, simbolicamente, nell’omerico otre di Eolo: “I venti soffiano secondo il corso del sole. Ciò significa che quell’unico si divide su varie direzioni, che sono appunto quelle fissate sulla ‘rosa dei venti’, in relazione ai punti cardinali. La vita sulla Terra richiede anche questo per il mantenimento dell’equilibrio nella sua manifestazione”. E’ il Pater ventorum, il mutevole re dei venti cui allude Orazio (chiamandolo Iapyx) in una sua ode benaugurale per il viaggio di Virgilio in Attica. Perché Volturno non è, come invece alcuni sostengono, un dèmone sciroccoso di sud-est, “dall’alito appestante” e da sfamare per salvarsi dall’arsura. I Volturnalia sono indirizzati anche a proteggere i frutti della stagione e quindi a proteggere l’aurea abbondanza di cui scrisse Columella. “E’ la fine della Canicola, un ciclo si chiude. Interviene il dio dei venti, quello che governa la buona navigazione nel viaggio di andata e in quello di ritorno, con destra virata. E’ la chiusura, occorre apporre un sigillo sicuro. La somma di energia accumulata deve essere racchiusa nell’aureo scrigno. Occorre quel sigillo, il soffio puro, benefico, salutare dell’artefice dei venti”. E’ “il soffio dolce purificante, dopo la turbolenta Canicola, dopo l’arido scirocco. E non è poco purificarsi dallo svigorimento con l’aiuto di un dio, sottrarsi al soffocamento; ed ecco giunge l’intervento del flamen Volturnalis che officia pro Salute Populi, per l’Urbe, per l’Orbe”. E’ possibile, aggiungiamo, immaginare questo nostro flamen officiare il rito volturnale con la forza di un alito benefico? Come un halitare che è anche un anlare (dal sanscrito an, spirare, ovvero soffiar fuoco) e dunque un alere o custodire come si fa con il soffio della fiamma, da cui appunto flamen.

     

    Infine, rivolti al Pater ventorum, non dobbiamo dimenticare i suoi uccelli ominosi: i vultures che da lui hanno tratto il nome. Furono loro, evocati sul Palatino dal Pater Romulus come un vento fatidico che virasse le sorti dell’augurium (quasi un volutare, intensivo di volvere), a indicare la via di Roma. E se è dalle loro ali dispiegate che giunge ancora un soffio liberatore, è ai loro rostri voraci che dobbiamo gettare la discordia, la cupezza, la paura, le vili ambizioni e la collera che ci rimpicciolisce.

     

    Ecco dunque una bella lezione che giunge da Volturno, il “possente del Re dei venti” che libererà il cielo d’Italia dalle torve nuvole, preparando per le anime audaci “il volo dell’aquila”, il lucente, alato genio solare di Giove Ottimo Massimo.