L'importanza delle sagre agresti e pastorali, in vista della stagione fredda. Le parole del dio Vertumno

Alessandro Giuli

    Il bello dell’estate campagnola sta anche nella fiera resistenza che le popolazioni agresti e pastorali oppongono, spesso inconsapevolmente, all’incipiente rigore dell’inverno. Che altro sono, in effetti, le così dette “sagre” paesane – dal latino sacra! – se non la sopravvivenza di vetuste celebrazioni conviviali nelle quali la comunità si riunisce per festeggiare il culmine della bella stagione? Già il Sole comincia a declinare nella sua orbita con l’approssimarsi dell’equinozio autunnale, e tutt’intorno si raccolgono le ultime messi e i frugali frutti dell’orto, che rapresentano il tesoro della dispensa in vista della stagione fredda: un paziente lavorìo diurno da api preveggenti al quale tiene dietro, all’imbrunire, la costumata liberazione di un cicaleccio festante, fra luminarie e brindisi. La miglior sagra cui abbiamo partecipato è a San Lorenzo Nuovo, a nord del lago di Bolsena, dove in antico si voleva regnasse il dio Vertumno. Ma proprio qui, fra i sorrisi leali dei nativi – dalla Pro loco al Gruppo Archeologico Turan – che rifuggono dalle insidie del mercantilismo tirrenico decaduto e ostile a Roma, ci è capitato di ascoltare appunto la voce gentile di Vertumno. E ci diceva così:

     

    Sono il dio Vertunno. / Non sono egizio, non etrusco, / greco nemmeno, né nacqui romano; / precedo tutti costoro come il lampo il tuono. / Oh, quanti sofisticati sapienti ho conosciuto / che mai si sono accorti di me! / Solo quei pochi che mi hanno appreso sull’istante, / solo quelli, credo, fossero veri sapienti. / Vi ricordate di quel tal di Sinope, Diogene il cane? / Ebbene, con una lanterna e tutto il dì, / per piazze e vicoli cercava l’Uomo; / lamentava di non averlo incontrato mai; / si fosse una sola volta accorto di me! / Eppure, gli avete eretto statue e busti. / A che pro? Ritenete dunque saggio / chi ignora una deità così rilevante, / chi non ha mai percepito la mia presenza? / Avete mai scrutato un naso? / Ci vuole sagacia e accortezza per esaminare un naso; / soprattutto il naso di un dio, dal momento che / ve lo siete immaginato. Arcimboldo / ci riuscì, solo, in tanti secoli fra tutti voi. / Perché Arcimboldo ero io; mi feci uomo / apposta per dipingere il mio autoritratto. / Scrutatelo quel mio naso. Potrebbe / essere una pera, ma anche una carota, / una zucchetta, un becco d’uccellaccio… / Dipende dal vostro percepire, / dall’ impressione, nell’istante! / D’altronde non posso darvi torto, avete ragione, / si tratta solo d’un dipinto ad olio su tela. / Tutt’al più occorrerebbe avvalersi del giudizio critico, / ammesso che non si tratti d’un eidolon / Pensate che quel picco di monte / sia sempre lo stesso? Guardatelo all’alba, / all’aurora, a mezzodì, al tramonto, / vedrete immagini diverse. Vertunno! / Così quel naso, nel mio autoritratto. / Già! Avresti, Arcimboldo, potuto immaginare / farne una bocca di quel naso / e di quella bocca farne un naso; / avresti potuto scomporre tutta la faccia / e poi diversamente ricomporla; sarebbe sempre / il mio autoritratto. Non scordarti che sono un dio! / Un dio può cambiare persino il “presente”, trasmutarlo / come vuole e quante volte vuole; e questo / sempre con giudizio, mai a capriccio. / Se mutate il vostro giudizio, e parliamo pure / d’un oggetto qualunque, su quel sasso, per esempio, / voi mutate nella vostra mente l’immagine di quel sasso / e, purché non sia un diversivo, mutate a quel sasso l’aspetto. / Oh, sono andati tutti via! E’ rimasto qui / un solo Arcimboldo… Ascoltami bene, mio caro, / anch’io, se muti su di me il tuo giudizio, io, un dio, / divenuto oggetto del tuo vedere, muterò. / Questa fronda d’acero che nella luce del sole / guardi ammirato, è già nell’ombra; l’agita / il vento, è sempre dessa? No! Perché / mi ci sono nascosto io…ero dunque il sole, / ero l’ombra, ero il vento? Mah, che dici! / Sei su un battello… scivoli sull’onda… / sull’onda placida, sull’onda agitata, sull’onda lunga, / sull’onda alta… Non puoi scegliere l’onda che preferisci, / Vertunno non te lo concede. Son qui! La serpe / avvolta in anelli, ora, è la serpe che si fa bastone, / la serpe che s’avvolge in spire… L’edera / che s’abbarbica alle vecchie mura, l’edera / che s’avvince all’albero… Ma, non sono io mai / quelle immagini, quelle disparate figure; / son quel che vedi, quel che percepisci / in un istante, e basta. / Sono l’anno che volge alla fine? No! Sono / Il cambiamento. E sì! Cambio pelle, / età, stato, stagione d’un tratto? E’ inutile / che m’insegui; nel momento successivo / non ci sarò… Così, come mi hai veduto, non ci sarò. / E non confonderti, e soprattutto non relativizzare; / non richiamarti a questo o a quello; non / agire a casaccio; non giudicare e misurare / le cose a tuo arbitrio… non prenderti in giro… / meriteresti tutto il mio disprezzo! Ricordati / che sono un dio, un dio sempre attento / a procurare ciò che è libero da relazioni e limiti. / Peggio per te se t’inceppi… Sono Vertunno, un dio vitale, / cui tocca il rapido agire; un mago per l’Uomo / che sa prendere nelle proprie mani il destino, / sa diriger l’aratro per dissodare il terreno / onde germogli la spiga di Cerere; / perciò tutelo l’estate e il passaggio all’autunno, / che con canestre di frutti premia il buon aratore.

     

    Ah, quei Romani! Ardirono forgiar la storia e, / nei tempi che vollero eroici, mai la subirono. / Sono fiero di loro, furono ottimi alunni! / Apparvi loro nel taglio lucente del gladio, / nelle mammelle sature di Acca Faula; nel muso / ferale del lupo in quel attimo che sgozza la preda; / nell’occhio e nel becco grifagno dell’aquila, / nel suo volo, nei suoi artigli possenti.

     

    E color che sanno aggiungono: “I Romani, sebbene considerassero Vortumno etrusco, in altre occasioni lo dichiararono anche più antico del periodo etrusco di Roma; l’osco Mamurio Veturio, l’artefice di Numa, che aveva forgiato gli ancilia, era ritenuto autore della statua arcaica del dio che sorgeva sul vicus Tuscus, all’uscita del Foro, dietro al tempio di Castore. Mamurio, l’artefice che l’antica, grezza materia docilmente fonde e cesella e trasmutandola realizza il divino sembiante. Unum opus est. Ma non un solo onore riceve”.