Chi dice che gli Etruschi sono scomparsi non è mai stato a Grosseto, a casa di Glauco G.

Alessandro Giuli

    Chi dice che gli Etruschi sono scomparsi non ha conosciuto Glauco Ginanneschi. Lui, grossetano, in verità alla continuità genetica tra gli antichi Rasenna (così si chiamavano) e i moderni maremmani non ci credeva affatto. Però etrusco lo era eccome, come tanti e incogniti personaggi che s’avvicinano en amusant al mondo dei Tirreni e finiscono per attivare una specie di recettore interiore, una memoria latente legata non soltanto al sangue, una vibrazione di alcuni centri sottili che s’accordano con uno spartito invisibile musicato migliaia d’anni fa da un popolo misterioso di sacerdoti, maghi, pirati e viaggiatori. Frequentatore di archeologi dilettanti, il più delle volte appassionati custodi di verità e testimonianze neglette dalla polvere sussiegosa dei professori (non tutti, invero), Glauco G. l’ho conosciuto per caso, si direbbe, ma come si dice spesso “il caso non esiste”.

     

    Una domenica soleggiata di autunno romano, l’ennesima visita al Museo nazionale etrusco di Villa Giulia, nell’attesa del mio compagno d’inattuali scorribande entro nella libreria del museo e getto lo sguardo su un libro fra gli altri, e quasi tutti scientifici. E’ un romanzo dal titolo magnetico: “Divinatoria. Il mistero delle lamine scomparse” (2008). Tendenza Valerio Massimo Manfredi, se non pure Dan Brown? Mi dico: massì, dopo tanti tomi con le note in calce, non può farmi che bene. Di ritorno a casa, lascio il volume a decantare per qualche ora (i libri sono tiranni capricciosi, guai a viziarli), poi lo aggredisco per non lasciarlo più fino all’ultima riga di 288 pagine. Se fossi un critico letterario dovrei mettermi le mani nei capelli per l’occasione sprecata (almeno un editing più rigoroso avrebbe giovato), ma siccome sono un lettore di massa non ho troppo eccepito. Il libro è bello e ha una sua autenticità perché l’autore, già Ispettore onorario per i Beni culturali nell’area di Grosseto, sa quel che scrive anche se non scrive tutto quel che sa. Di che si tratta? In poche parole: alcuni tombaroli s’imbattono nella madre delle scoperte – lamine auree contenenti il corpus rituale degli Etruschi – scatenando vuoi o non vuoi l’interesse, la cupidigia, l’azione di forze diverse e concorrenti: Vaticano, mafia, servizi segreti italiani, collezionisti e doppiogiochisti varii. Ci sono molti morti e colpi di scena, e almeno in questo il lavoro è riuscito magistrale. Ma sopra tutto c’è che il Ginanneschi lascia intendere di aver dovuto romanzare una prosa vera e indicibile, sotto chissà quale pena. A quel punto l’ho cercato tramite il suo editore, Effigi, quello che pubblica i libri di Giovanni Feo (è il più noto etruscologo militante e non ufficiale, su di lui tornerò presto), ho saputo che non stava bene ma non ho dovuto insistere per incontrarlo: sua moglie Elisa e suo figlio Simone hanno organizzato la mia visita grossetana. Ho così conosciuto un uomo dolce e curvilineo di 67 anni che sembrava direttamente trapiantato sotto i miei occhi dal coperchio di un’urna cineraria tirrenica. “Il malanno mi consuma”, sospira, e io vedo già una Lasa (il genio personale che accompagna l’uomo dalla culla fin nell’Ade) stendere la mano destra sopra la sua testa, per richiamarlo fra i Mani antichi, ma con uno sguardo di complicità grata: Glauco è uno di loro, ha fatto tanto perché la vita inestinguibile di una cultura millenaria sopravvivesse nelle sue mani di scavatore improvvisato, nei suoi libri di studioso coltissimo, nelle sue parole d’amore incondizionato per l’identità dei luoghi etruschi (“Etruscan places” è anche il titolo di un’ispiratissimo resoconto di viaggio pubblicato da D. H. Lawrence nel 1932).

     

    Lo ha fatto in nome di quella che lui chiamava “malattia etrusca”, un ardore speciale che s’impadronisce di chi, per ventura o per elezione, si ritrova a stretto contatto col magnetismo fluidico di un sito archeologico, una necropoli, un tempio, una fossa votiva… A Glauco, autodidatta, è successo questo, da quando il suo piccolo terreno a Vetulonia ha cominciato a restituire manufatti e lui, ingenuo e coscienzioso, si è attirato sospetti d’essere un tombarolo per il solo fatto d’aver denunciato tutto alle autorità. Lui che avrebbe poi scoperto nientemeno che un frammento di lamina bronzea con sopra incise 12 lettere dell’alfabeto etrusco (divinatoria?). Lui che avrebbe potuto lucrare come e forse più d’altri, e ha invece profuso saggi consigli (“l’archeologia è il nostro petrolio… qui c’è un futuro fatto di passato. Basta volerlo…”). Lui, ironico vignettista e fustigatore d’intrallazzi parastatali, ha ammonito contro il traffico di reperti clandestini “di bellezza e importanza da restare esterrefatti”. Lui, che considera i tombaroli profanatori ma si è ostinato a reclamare il “loro” metal detector per gli scavi ufficiali, ha esplorato palmo a palmo forre e rilievi del grossetano per vivere la gioia pura della scoperta da condividere con pochi e scelti fratelli tirreni. Lui, infine, che mai ha amato l’archeologia sedentaria, è riuscito a elaborare a beneficio dell’accademia un’ipotesi inedita sull’orientamento dei sepolcri, fondata sulla tradizionale divisione del cielo in quadranti e sezioni angolari, per concluderne che i meritori fra i trapassati ebbero il privilegio di un corridoio tombale concepito non soltanto per entrare nell’Ade ma anche per uscirne rigenerati verso una porzione celeste consentanea alla loro natura: “Per esempio: sacerdote Augure destinato al settore delle Divinità Celesti; oppure: grande navigatore o ammiraglio nel settore appartenente alle Divinità Marine; uomo comune orientato verso ovest, nelle Divinità del Fato”. Non mi è dato conoscere il luogo naturale del grande viaggio intrapreso da Glauco pochi giorni fa, quando la Lasa l’ha preso con sé, ma sento che lì brilla il sorriso enigmatico dei Rasenna.