Che cosa insegna la tragedia nepalese al coro delle nostre vette interiori (per chi ne abbia)

Alessandro Giuli
Mai avrei voluto scrivere in questa rubrica di una cosa simile, mai del terremoto nepalese. Ma come si fa a ignorare i dèmoni della montagna.

Mai avrei voluto scrivere in questa rubrica di una cosa simile, mai del terremoto nepalese. Ma come si fa a ignorare i dèmoni della montagna. L’Everest visto da qui è più piccolo del Monte Albano, nei nostri cuori antichi in effetti lo è perché noi con-vibriamo anzitutto con le ancestrali sonorità luminose della Saturnia Tellus, eppure del Nepal siamo a vario titolo parenti per sangue e spirito. Chiunque ami e conosca la montagna, poi, ma non nella forma moderna dell’alpinismo degradato a sport inquinante, sentirà un tuono di schegge violente agitarsi nell’animo. Chiamano il Nepal tetto del mondo anche adesso che somiglia a un deserto di ghiaccio e macerie. Gli sherpa, loro sì che bisognava ascoltarli: i dèmoni delle creste innevate sono inquieti, scuotono l’aria e, affacciati alle cavità montane, soffiano furore nelle viscere della terra. Lo sapeva anche il nostro freddo Lucrezio: “C’è anche un’altra causa dello stesso grande tremore: / quando il vento con una subitanea massa grandissima d’aria, / sorta o dall’esterno o dentro la terra stessa, / si è scagliato nelle cavità della terra, e ivi freme / dapprima con tumulto fra le grandi spelonche / e turbinando scorrazza; poi l’impetuosa forza / sfrenata erompe fuori e, insieme squarciando / profondamente la terra, produce una grande voragine”.

 

Ovvero è Shiva, signore del fuoco che distrugge e rigenera, a pettinare la propria chioma azzurrata scrollando via gli umani pidocchi con le loro case illusorie. Vano è domandarsi il perché delle cose ultime, se non si abbia accesso a una consapevolezza ulteriore rispetto a quella ordinaria, quella delle termiti occidentali che abitano il cemento. Il Nepal, per molti, qui, è poco più della meta fricchettona cantata da Rino Gaetano: “A Khatmandu c’è anche il gurù, / ci porta in paranoia predicando a testa in giù. / A Khatmandu non dormi più, / ti sforzi di scavare dentro i tuoi tabù”. Insomma come l’India di Varanasi e altri pochi luoghi raggiungibili dall’accidiosa curiosità degli sradicati. O anche una fantasticheria da aspiranti illuminati che partono per nientificare il proprio ego e finiscono per gonfiarlo a dismisura. (Parecchi anni fa avevo un amico un po’ new age e con ambizioni di pittore, ci dedicammo allo sciamanesimo, ai sogni lucidi di Castaneda, prometteva bene. Poi è partito per l’estremo oriente hinduista tornandone carico di vanità, si è trovato un nome mistico altisonante, è diventato il fenomeno d’un demi-monde plastificato e sgargiante, un trionfo di acrilico fucsia buono per il mercato cinese che infatti mi dicono lo abbia premiato. Chissà se adesso sta piagnucolando intorno alle rovine nepalesi?).

 

Non voglio negare ai senza patria e a quelli che di patrie ne hanno sin troppe il diritto di piangere il cataclisma nepalese, la scomparsa degli umani e delle loro creazioni artistiche, il sacrificio degli scalatori professionisti. Vorrei semmai aggiungere, con Novalis: “Accade ciò che già è”, o meglio ancora: quanto accade sul piano della materia è già avvenuto in dimensioni dalla profondità abissale, e cioè dentro l’anima di quegli dèi mortali che sono gli uomini, gli esigui rimasti fra tanti feroci animali incravattati da bipedi. E’ lì che indagherei, se volessi avvicinarmi al senso di una disfatta così tremenda e non poi così lontana. Per trattare con Shiva, per essere Shiva, devi aver domato la tua oscurità, la dèa Kalì che con ogni suo tentacolo ci ricorda la cangiante, contraddittoria, disordinata frammentazione interiore dell’uomo comune. Altrimenti sono guai, dolori, pianti, o peggio ancora l’indifferenza muta di quegli stessi dèmoni pronti a scatenarsi, sì, ma anche a migrare altrove, lì dove sia un residuo di umanità da mettere alla prova. Come già la Cina che ha voltato le spalle al culto dei padri, come già il Tibet, l’amato Tibet invaso e senza più centro né confini, anche il Nepal sta facendo i conti con tutto questo disordine e noi non possiamo avere la malagrazia d’ignorarlo. Noi che al riguardo abbiamo appreso l’essenziale da Julius Evola – “La montagna insegna il silenzio. Disabitua dalle chiacchiere, dalle parole inutili, dalle inutili, esuberanti effusioni” – dovremmo cogliere la vertigine solenne della lezione nepalese e farla risuonare nel coro delle nostre vette interiori.

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