Perché non deve angosciarci il fanatismo nerovestito che spiana le antiche città mesopotamiche

Alessandro Giuli

Tre giorni fa Roma (non la Roma storica, quella aeterna) celebrava come ogni anno la festa del dio che accoglie fin sul Campidoglio la gente troiana di ritorno dall’incendio di Ilio. Si chiama Vediove, è un giovane riccioluto e ha in mano una triplice saetta, come un Giove adolescente. Alcuni lo ritengono Ascanio divinizzato, il figlio di Enea e fondatore di Albalonga, il villaggio pastorale (pagus) adiacente a quel monte Albano (o monte Cavo) che di Vediove sarebbe la prima manifestazione sotto forma di vulcano. Remote risonanze. L’asilo-tempio di Vediove è ancora visibile sul Campidoglio, poco prima dell’affaccio sul Foro che dai balconi del Tabularium traguarda appunto il monte Albano. Anche la statua del nume, benché acefala e mutila e scalpellata con odio, è ancora lì nel suo muto biancore marmoreo. Tre giorni fa nel tempio di Vediove c’era soltanto un sole quieto, i pochi turisti in circolazione stavano visitando la mostra ospitata dai Musei capitolini, intitolata “L’Età dell’Angoscia” e dedicata ai “grandi cambiamenti che segnarono l’età compresa tra i regni di Commodo (180-192 d.C.) e quello di Diocleziano (284-305 d.C.)”. Con tutto il rispetto per gli organizzatori, non m’interessa l’angoscia, sopra tutto quella che precedette la fine dell’impero, con il vortice dei primi conflitti religiosi generati dalle sette orientali che predicavano i loro fanatismi.

 

Preferisco il sole, anche quando scintilla sulle rovine di una civiltà presa a martellate dalla stoltezza umana più ancora che dal tempo. Ho pensato però all’angoscia che sta invadendo l’occidente alla vista di quei furbi scarafaggi dello Stato islamico impegnati a spianare statue e mura dell’antichissima Mesopotamia. E mi è venuto in mente un vecchio retore fiorito da quelle parti nel Quarto secolo avanti l’èra volgare, il siriaco Libanio, grande amico e ammiratore dell’imperatore Giuliano, ma non abbastanza per impegnarsi pubblicamente al suo fianco nella sfortunata restaurazione del paganesimo (Massimo di Efeso, per esempio, ci rimise la pelle). Quando ormai la causa politica dei gentili appariva sconfitta, Libanio rivolse invano a Teodosio la sua orazione pro templis, nella quale osò scrivere questo: “Ma questi uomini vestiti di nero, che mangiano più degli elefanti, che stancano, per l’abbondanza delle bevute, chi gli versa da bere al suono dei loro canti; loro che nascondono queste sregolatezze con un pallore prodotto ad arte, Imperatore, contro la legge vigente, si scagliano contro i templi portando legna, pietre e ferro. E quelli che non ne hanno usano mani e piedi […] i tetti vengono buttati giù, i muri sfondati, le statue abbattute, gli altari rovesciati, i sacerdoti indotti al silenzio o costretti a morire. Distrutto il primo tempio, corrono al secondo, poi al terzo e, contro ogni legge, trofeo si cumula su trofeo”. Il buon Libanio opponeva l’ingenua verità: “I templi sono l’anima per le campagne, le prime fondazioni innalzate in esse e pervenute a noi che viviamo ora attraverso molte generazioni”. Si sa come poi è andata, ma quegli “uomini vestiti di nero” di cui parla Libanio si sono adesso reincarnati in altre figure similmente bestiali. C’è di che angosciarsene? I mesopotamici onorarono un dio saettante e incline alla vendetta per certi aspetti paragonabile al nostro Vediove, il cui nome è Nergàl. A lui ci si potrebbe appellare. Ma senza angoscia, se non da parte di chi confonde la lucentezza del sacro con la materia bruta, ancorché bella di una bellezza irraggiungibile per il mondo contemporaneo. Anche a me, come all’Unesco e a chiunque abbia uso di civiltà, spiace che gli scarafaggi nerovestiti cancellino vestigia così importanti. Bisogna battersi per fermarli. Ma bisogna anche ricordarsi con quale idea ferma nel cuore gli antichi edificarono il loro mondo di pietra. Questa idea era l’imitazione della natura e sopraggiunse quando ormai s’era smarrita la capacità umana di sperimentare il sacro senza dover scolpirlo nel legno o nel marmo. Quando si vede o s’immagina un tempio antico, occorre sapere che il modello delle colonne sono i fusti degli alberi nei quali scorre verso l’alto la linfa della terra nutrice e che l’archetipo del tetto è la volta celeste dalla quale una luce inestinguibile giunge per compiere una grande opera d’amore che nessun fanatico potrà mai demolire. Perfino la statua del dio Vediove, cesellata in origine secondo i canoni della divina proporzione, obbedisce a questa legge di natura e oggi il suo volto non è più di marmo ma di sole. Lottare si lotta, per la civiltà, ma non c’è motivo di rabbuiarsi. Per iniziare, è bene accomodarsi nel proprio villaggio interiore, illuminandolo nel silenzio di una fiamma pura, e renderlo inaccessibile ai profani.

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