Che cosa c'entra Julianne Moore con Adone, Osiride e un cucciolo di nome Rufus? La rossitudine

Alessandro Giuli

Mai sottovalutare il rosso: se non va troppo di moda non passerà mai di moda. Come pure le rosse. Tipo Julianne Moore che ha appena vinto l’Oscar e adesso tutti parlano di lei e di altre rosse non meno importanti – vedi la rubrica della mia dirimpettaia.

Mai sottovalutare il rosso: se non va troppo di moda non passerà mai di moda. Come pure le rosse. Tipo Julianne Moore che ha appena vinto l’Oscar e adesso tutti parlano di lei e di altre rosse non meno importanti – vedi la rubrica della mia dirimpettaia. Il rosso è più di un colore primario e gode di una letteratura copiosa (da Goethe a Kieslowski passando per Stendhal e Hawthorne), non sempre benevola, mai riproducibile se non per sommi e ben selezionati capi. Bisogna insomma trovare un tono di rosso, possibilmente non profano come una felpa della Fiom, se del rosso si vuole trattare. Comincerò dall’innocenza di un cucciolo di cane che da qualche settimana zompetta nei paraggi. Si era fatto notare per una mitezza che sembrava esagerata perfino, e dunque irrinunciabile. Macché. Per via del colore è stato chiamato Rufus, che in latino sta per “rossochiomato”. Una volta adottato si è svelato maestro di dissimulazione, oppure ha preso sul serio il suo nome: trovando subito inevitabile mordere qualunque cosa a portata di fauci, impetuosissimo nell’aggressione alla collega più grande o, immemore del dolore, alla gatta ormai nevrotizzata. Sculacciato, oggi guaisce in modo teatrale ma dimentica presto e ricomincia ad addentare, coscienziosamente festoso e con un’idea tutta sua di ordine in base alla quale ogni oggetto – pantofole, bicchieri, maglioni, cravatte – non è altro che un trofeo da disporre con cura geometrica, una cura marziale, nella cuccia-asilo. Nel suo caso, dunque, il nome è più d’un vezzo, è un’equazione personale, un continuo palinsesto di rossitudine.

 

Del resto, al rosso è sempre stato associato un temperamento di fuoco: nell’antica Roma, Rufus era un cognomen, cioè un iniziale soprannome legato al colore dei capelli che poi ha finito per denotare questa o quella famiglia in particolare. Molti Rufus sono stati consoli, uomini politici e sopra tutto generali (Lucio Verginio, Marco Celio, Publio Sulpicio), altri giuristi (Servio Sulpicio, l’amico di Cicerone), alcuni poeti. Uno di loro, Publio Rutilio Rufo, assommava nei suoi tria nomina due volte il rosso, poiché anche Rutilio origina da rutilus, che significa sempre rosso (e qui penso a un grande poeta tardoantico, al gallo-romano Claudio Rutilio Namaziano, autore del fiero e struggente poemetto pagano “De Reditu”, trasformato in film da Claudio Bondì nel 2004). Insomma nella città delle quadrate legioni dai drappi rossi c’erano molti generali fulvi (altro attributo cromatico evidente che diventa poi nome gentilizio). Fatalità? Rosso è anzitutto il colore del nume patrono dell’Urbe, Marte, e dei suoi figli guerrieri. Come ci ricorda Georges Dumézil, nel tricolore italiano (o, aggiungo io, nella manifestazione della Beatrice dantesca) si conserverebbe il fossile vivente delle tribù che fondarono Roma e delle rispettive loro funzioni nell’ordine sacro e politico dello spazio urbano: i Sabini verdi come Flora, addetti al sostentamento del popolo in armi; i Latini di Romolo rossi come Marte, depositari della regalità guerriera; gli Etruschi bianchi come Giove, titolari della sovranità sacerdotale. Può darsi che sia una forzatura, ma non c’è dubbio che rosso sia il colore del sangue e del vino e dei guerrieri. L’India vedica lo attribuisce agli kshatriya, casta marziale e ardente di furore bellico. Anche i Greci, naturalmente, conobbero la potenza del colore rosso di cui si ammanta il loro dio della guerra, Ares. Ma fra gli Elleni figura anche un rosso pallido, fragile e timido che più s’addice alle età feminee della decadenza. E’ il colore dell’anemone, il fiore germogliato dal sangue del morente cacciatore Adone, archetipo di una bellezza mascolina fanciullesca, carissima ad Afrodite ma non al rutilo suo amante Ares, il quale vendica la scappatella della dea caricando il giovane nelle sembianze d’un cinghiale, così uccidendolo. Pare che questo sia un mito d’origine mediorientale legato ai cicli della fertilità. Adone sarebbe un nume vegetativo che muore e rinasce, o meglio entra in latenza e poi s’affaccia smunto. Forse è anche il segno che dalle latitudini asiatiche provengono contraffazioni dell’amore e perversioni dell’ardore guerriero? Chissà. E’ sicuro, invece, che nell’Egitto dei faraoni si diffidava moltissimo del rosso, perché lo si attribuiva alla ferocia distruttrice di Seth, fratello di Osiride e suo assassino (anche Osiride, fallo/obelisco solare, rinascerà invitto). Ma l’Egitto è una terra strana e di confine, di origine atlantidea, e da quelle parti il fuoco del deserto può divorare come un roveto ardente. Come l’allucinazione che, dal Medioevo, avrebbe poi causato quelle discriminazioni persecutorie nei confronti dei così detti rosci associati alla stregoneria e al diavolo.

 

Perché c’è rosso e rosso, c’è ardore e ardore. E forse non si può giocare troppo con i colori né con il loro calore. Nemmeno quando si sceglie il nome per un cucciolo.

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