Messinis e la musica senza virgole spiegata da un gran critico militante

Mario Bortolotto

Una manifestazione musicale (ma si dovrebbe dire evento, non fosse l'abuso del nome che lo rende sospetto) si svolge in Bologna, a giorni ben distanziati fra loro.

    Una manifestazione musicale (ma si dovrebbe dire evento, non fosse l'abuso del nome che lo rende sospetto) si svolge in Bologna, a giorni ben distanziati fra loro: i non Bolognesi dovranno rassegnarsi all'assenza, o salire in treno: il titolo è Il nuovo l'antico (si noti l'assenza di virgola, suprema eleganza): il tutto dovendosi a Mario Messinis, che è oggi noto anche alle pietre musicali come il critico per eccellenza, o almeno la voce della sua generazione. Intendiamo critico militante, nonostante il termine militare, ma tant'è: non troviamo di meglio, e confidiamo nei lettori del suo giornale, che gli offre ben poco spazio. In realtà, ci troviamo difronte a una “cosa rara”, per rifarci ad un testo che egli stesso fece eseguire, se ricordiamo bene. Ma tant'è: il Nostro eccelle anche quale organizzatore, e mezza Italia (e anche più) ne ha osservato la qualità: si trattasse poi di un fiammingo, o d'un veneziano del gran secolo non fa differenza: il risultato, stante la grande competenza, sarà lo stesso, vale a dire eccellente, come già fu inteso.

    Gli eccelsi che di volta in volta vengono adunati per ripeterci qual è la grande musica stabiliscono con colleghi d'altra età significativi rapporti di amicizia: giacché ascoltare Chopin dopo Debussy, ovvero Stockhausen dopo Bach o Varèse non è più la solita solfa, ma una rilettura innovativa al massimo: i testi possono essere quelli arcigni della attuale filologia o quelli su cui abbiamo tutti studiato: risultano favolosamente, intrepidamente nuovi, ove l'antico appunto può consentire un ascolto del nuovo senza pedanterie di sorta. Il direttore della vicenda esecutiva ha già pensato a tutto: possiamo ascoltare tranquilli e felici. Se poi qualche numero non ci fosse particolarmente simpatico, pazienza: avremmo intanto imparato qualcosa di nuovo, e il conto tornerebbe perfettamente. Avere gusto: ecco la regola che fa impazzire di bile gli austeri studiosi tedeschi: i quali sembrano ignorare la voce “Diderot”, e tanto peggio per loro. Conoscessero almeno Messinis, che gusto ne ha da vendere, e da saperne parlare, la volta prossima o la prossima esecuzione. Quanto a noi, ci siamo già rassegnati ai treni. E, questa volta, con somma gioia: essendo in programma un capolavoro supremo ma cui la durata di due ore e passa sottrae molte occasioni di farsi riascoltare con l'entusiasmo che merita: Hohe Messe di J. S. Bach: opera che sì appartiene agli anni della piena maturità, ma composta in due epoche, fra 1733 e '49: chiaramente in due imprese assai distinte (e diversamente ammirabili, stante le notevoli differenze, specie nel trattamento delle voci).

    L'opera è immane, con coro a quattro che poi diviene a cinque per l'entrata di un'altra voce contrantile. Testimonianza di un sapere contrappuntistico semplicemente sbalorditivo, con solisti, coro e orchestra (due flauti, due oboi d'amore, due fagotti, tre trombe, corno, timpani, archi) la composizione si svolge, con l'evidenza di una forma biologica sfoggiando una maestria senza pari: solo che a meraviglie formali quali l'Arte della fuga e l'Offerta musicale, aggiunge una carica che la rende inebriante: di tale essenza sono emblema i trilli, segnatamente delle trombe, uniche nello stabilire valenze di ineffabile gaudio.

    Ahimè, sono proprio i trilli incorsi nella furia devastante del direttore d'orchestra, Helmut Rilling, che, da bravo specialista, deve aver diretto la Messa decine e decine di occasioni: anche troppe. Meraviglioso invece il calore del corno, così decisamente boschivo, il magnifico coro, le trombe irresistibili alla loro entrata. Ogni commento alla partitura sarebbe superfluo, o presuntuoso: “non nominare il nome di Dio invano – ci consigliò una sera un critico illustre. Citiamo solamente un antico biografo: “questo è il vertice supremo della perfezione artistica che, nella più intima unione di melodia e armonia, nessuno, a parte Johann Sebastian Bach, ha finora raggiunto”. Finora significa qui Berlino, 1802.