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Il gran ministro dell'Economia che verrà

Stefano Cingolani

Quelli (quasi tutti) che vorrebbero Cottarelli e quelli che fino a ieri sbraitavano contro la dittatura dei tecnici. Tra debito e spesa, banche e nuove possibili crisi, è l’Economia la poltrona che scotta

In tutto il gran chiacchiericcio che s’è fatto durante la campagna elettorale su squadre di governo più o meno numerose, una poltrona spicca su tutte le altre, la più importante dopo quella del capo del governo, la stessa occupata per ben tre volte da Quintino Sella, scienziato, alpinista, politico, esponente di primo piano della Destra storica. Come mai? Potremmo dire che è un segno dei tempi, è una posizione che ha bruciato fior di servitori dello stato e di riserve della Repubblica. Un destino che si trascina nei secoli e risale a ben prima che arrivasse la democrazia a rendere le cose più complicate. Quando c’era il re o l’imperatore su chi si scaricavano tutte le tensioni se non sul ministro che teneva i cordoni della borsa? Nemmeno il più potente di tutti, il gran controllore Jean-Baptiste Colbert, sfuggì a questa dannazione anche se era il re Sole a spendere e spandere. Tuttavia, il ricorso alla storia non basta a capire il mistero del gran ministero.

 

Il candidato più richiesto per il Mef (ministero dell’Economia e Finanze) è senza dubbio Carlo Cottarelli: lo hanno cercato in tanti, pentastellati compresi, e non si capisce a quale scopo visto che il loro programma è quello che prevede più deficit e più spesa pubblica per ridurre il debito. Mr. Spending review ha risposto con un articolo sulla Stampa giovedì scorso nel quale fa il pelo e il contropelo a tutte le roboanti promesse, a cominciare proprio da quelle dei grillini. Luigi Di Maio ripete che ridurrà il debito pubblico di 40 punti percentuali di pil in dieci anni, ma ciò potrebbe essere possibile “solo se il prodotto lordo crescesse di almeno 5 punti percentuali all’anno in termini reali, ritmi quasi cinesi”. Anche Matteo Salvini vorrebbe prendere a prestito più soldi per ridurre il debito grazie a una maggiore crescita. L’avanzo primario (cioè entrate meno spese al netto degli interessi) che è oggi dell’1,7 per cento del pil, verrebbe azzerato in due anni violando le regole europee. Secondo la Lega ciò farebbe ripartire l’economia; anche prendendo per buona questa previsione, secondo Cottarelli il debito scenderebbe solo di undici punti. Più vicina al rispetto delle regole europee è Forza Italia, mentre il Pd propone la formula magica dei tre due: crescita del per cento, inflazione del 2 per cento, attivo di bilancio del 2 per cento. Controcorrente, Più Europa vuole aumentare addirittura il sovrappiù al 5,2 per cento del pil facendo calare il debito di 23 punti, una posizione estrema ed irrealistica.

 

La frenetica corsa di Di Maio: la lista dei rifiuti, degli ignari, degli increduli è lunga. La scelta alla fine è caduta su Andrea Roventini

La prossima crisi economica, dice un pool di economisti italiani, verrà dai debiti sovrani. Le divergenze con i colleghi franco-tedeschi

Di Maio nella sua frenetica ricerca ha pensato anche a Pierluigi Ciocca ed era improbabile vista il suo passato alla Banca d’Italia e la sua coerenza culturale come storico dell’economia orientato a sinistra. Ha ricevuto un no da Mariana Mazzucato, l’economista italo-inglese apprezzata perché ha rilanciato il primato dello stato. La lista dei rifiuti, degli ignari, degli increduli è lunga come il catalogo di Leporello. In stand-by è rimasto Marcello Minenna il quale, dopo la brutta esperienza come assessore-lampo nella giunta Raggi, vuole vedere che succede. Poi è tornato dal Sudafrica un cervello in fuga: Lorenzo Fioramonti, gran nemico del pil e di Israele, ma dovrebbe diventare ministro dello Sviluppo che è altra cosa: una volta si chiamava dell’Industria, poi delle Attività produttive, oggi è il posto occupato da Carlo Calenda. A lui toccano tutte le rogne che riguardano i “tavoli di crisi”, sotto le sue finestre vanno gli operai licenziati dai padroni, nei suoi corridoi stazionano le multinazionali che vogliono disinvestire e quelle che vogliono investire, insomma bisogna augurare buona fortuna a chi entrerà in palazzo Piacentini. Ma la sua scrivania non assomiglia minimamente a quella di via XX Settembre per la quale, tira e molla, la scelta è caduta su Andrea Roventini, 41 anni, nato a Mirandola come Pico, professore associato della scuola Sant’Anna di Pisa, dove ha lavorato con il direttore Giovanni Dosi, rinomato esperto di economia industriale. Il ministro ombra dell’Economia si definisce “un keynesiano eretico” (vanta pubblicazioni con il guru George Stiglitz) e la sua ricetta è proprio quella criticata da Cottarelli: più deficit pubblico, più crescita, più inflazione, meno debito. Dosi è più radicale: aumento delle tasse oltre 100 mila euro di reddito, patrimoniale sulle attività finanziarie, ristrutturazione (cancellazione) del debito, ritorno dell’Iri, oltre a un ampio uso della Cassa depositi e prestiti, infine “l’euro è una valuta straniera che noi non controlliamo”.

 

In attesa di capire se l’allievo supererà il maestro, è paradossale che proprio chi s’è fatto una professione sbraitando contro la dittatura dei tecnici adesso ricorra a un tecnico. Curioso, anche perché persino un supertecnico come Mario Monti sostiene che quell’èra sia finita, tanto che egli stesso ha voluto farsi politico. Nel frattempo si sono esaurite le riserve di talenti, a cominciare da quelle di palazzo Koch. Non perché la Banca d’Italia non sia più un brain trust di primo livello, ma perché quei cervelloni sono rimasti scottati. Basti pensare che in Parlamento nessun partito si è alzato a difendere il governatore Ignazio Visco durante il processo sommario intentato dalla commissione d’inchiesta sulle crisi bancarie. Il Partito democratico ha ancora un parco di di economisti che hanno dato buona prova come uomini di governo (per esempio Claudio De Vincenti), come parlamentari (Giampaolo Galli) o come consiglieri (si pensi a Tommaso Nannicini), senza dimenticare naturalmente Pier Carlo Padoan (il quale ha intenzione di fare il bis).

 

Monti, tuttavia, coglie nel segno. Chi sceglie il ministro dell’Economia solo per le sue credenziali accademiche, lo fa per darsi una credibilità che non ha. E’ successo in Grecia con Yanis Varoufakis e non è andata bene. In Francia il ministro è Bruno Le Maire, che ha partecipato alle primarie della destra. In Germania dopo il politicissimo Wolfgang Schäuble tocca a Olaf Scholz, dirigente della Spd. In Inghilterra da Gordon Brown a George Osborne e Philip Hammond, tutti hanno ricoperto ruoli importanti nel loro partito. In Spagna Luis De Guindos ha appena lasciato per andare alla Banca centrale europea con la doppia etichetta di politico e competente. Questo perché l’Economia è un ministero che ha bisogno di un profilo forte e diretto; per poter contribuire alle decisioni del governo ci vuole una figura con un chiaro mandato elettorale, con l’autorità per sostenere decisioni difficili. Altrimenti, sarà sempre e solo il cassiere del principe. Dalla flat tax del centro-destra al reddito di cittadinanza pentastellato, dai bonus del Pd alla restaurazione dell’articolo 18 della sinistra più di sinistra, non mancano certo le proposte e le promesse che comportano lo stacco di cospicui assegni. Al di là dei conti della spesa, chi guida la complessa macchina del Mef deve garantire i mercati e l’Unione europea che l’Italia continua ad adottare l’euro e nessuno, nonostante le fantasiose monete parallele, vuole abbandonarlo di propria volontà. Lo ha detto anche Berlusconi, il quale cerca una figura in grado di rassicurare l’Europa. Forza Italia ha Renato Brunetta, economista diventato politico battagliero, tuttavia non è una personalità ecumenica e il Cavaliere si rende conto che le cancellerie in questa fase non si sentono affatto sicure di dove andrà l’Italia. Non solo.

 

Nel 2019 si tengono le elezioni europee che rimescoleranno l’intera gerarchia. Di qui ad allora, Emmanuel Macron e Angela Merkel (non appena avrà chiuso il complicatissimo puzzle per la grande coalizione) vogliono definire proposte chiare. Il loro obiettivo è far nascere nella prossima legislatura il nocciolo duro della nuova Unione. Accanto ai rapporti ufficiali e alle trattative diplomatiche, Parigi e Berlino hanno messo in campo un gruppo di 14 economisti che hanno lanciato in aria ballon d’essai di grande portata. I campioni dell’asse franco-tedesco non hanno solo una importante posizione accademica, ma sono ascoltati consiglieri dei rispettivi principi come Jean-Pisani-Ferry, principale architetto della piattaforma economico-politica di Macron, e Philippe Martin, professore anche lui a Science-Po, consigliere della prima ora anche se al momento manifesta molte critiche al presidente; dal lato tedesco vanno citati almeno Clemens Fuest, capo dell’Istituto delle ricerche economiche, e Beatrice Weder di Mauro, che insegna all’Università di Magonza, già membro del Consiglio degli esperti economici del quale si avvale la Cancelleria.

 

Un “keynesiano eretico”: la sua ricetta è quella criticata da Cottarelli: più deficit pubblico, più crescita, più inflazione, meno debito

Un ministero che ha bisogno di una figura con un chiaro mandato elettorale, con l’autorità per sostenere decisioni difficili

A capire la portata dell’operazione sono stati alcuni economisti italiani come Marcello Messori, Stefano Micossi, Lorenzo Bini Smaghi o il gruppo dei Venti “per rivitalizzare l’anima Europa”, organizzato da Luigi Paganetto, i quali hanno deciso di sfidare i colleghi in punta di dottrina, ma senza negare le implicazioni politiche della querelle.

 

Il punto di partenza è semplice e allarmante nello stesso tempo. La prossima crisi economica non verrà, come quella da poco finita, dagli squilibri esterni, ma dai debiti sovrani. Quindi bisogna disinnescare la bomba a orologeria. Come? La questione centrale è la ristrutturazione preventiva del debito utilizzando anche strumenti finanziari che servano a disincentivare quei governi che non rispettano i termini del piano di rientro. I 14 economisti vorrebbero escludere “strutturalmente” le banche dall’acquisto di titoli sovrani nazionali sotto stress e rimuovere quasi del tutto le eccezioni di stabilità finanziaria per l’attivazione del bail-in. In caso di choc esterni, così, uno stato membro fortemente indebitato dovrebbe ricorrere al meccanismo di stabilità prima ancora che venga presa in considerazione qualsiasi ipotesi di intervento e di assistenza finanziaria. Invece del rapporto deficit/pil, il nuovo criterio per risanare le finanze sarebbe un tetto alla spesa pubblica inferiore al tasso di crescita dell’economia.

 

Non è difficile capire chi potrà diventare bersaglio di questa nuova, complessa impalcatura: l’Italia sarebbe messa immediatamente sotto tutela mentre le sue banche verrebbero sottoposte a un durissimo colpo. Messori e Micossi respingono sia l’analisi sia le proposte e dimostrano come “lungi dal realizzare l’obiettivo dichiarato di rendere l’area euro più stabile, queste proposte alimentano il rischio di instabilità e indeboliscono le difese dell’area euro contro choc finanziari”. Il ricorso al fondo salva stati una volta esaurite le risorse nazionali equivale a una dichiarazione di fallimento. Solo evocare questa possibilità genera fuga dei capitali e corse allo sportello. Bini Smaghi mette in rilievo la portata politica della analisi contestandone la fondatezza sul terreno propriamente economico. La crisi è diventata davvero esistenziale tra il 2011 e il 2012 perché improvvisamente i mercati si sono convinti che era possibile un collasso dell’euro, non di un singolo paese, ma dell’intero sistema.

 

Gli economisti franco-tedeschi rifiutano di considerare quello che per gli italiani è il cuore stesso della crisi passata e potrebbe diventarlo di una crisi futura: il “rischio di ridenominazione”, che Mario Draghi ha fugato nel luglio 2012 con il suo “whatever it takes”. Solo il completamento dell’unione bancaria con un mercato finanziario davvero omogeneo consente di rafforzare il sistema bancario, sottolinea Bini Smaghi, il quale ricorda che la Germania continua a opporsi a che la liquidità generata nel suo paese possa essere utilizzata altrove, una trappola nella quale restò invischiata la Unicredit nell’autunno del 2008. Quanto alla riduzione del debito, il tetto alla spesa rischia di essere più complicato da applicare rispetto al criterio del deficit. La politica fiscale spetta ai governi nazionali e non può non essere usata senza una certa discrezionalità, ogni organismo esterno, tanto più se tecnico come vorrebbero i 14 economisti, viola il rapporto tra tasse e rappresentanza politica che è la base della democrazia.

 

Il pacchetto franco-tedesco è in sintonia con le proposte presentate da Schäuble nel novembre scorso, il lascito politico-intellettuale dell’ex ministro ora presidente del Bundestag. Alla faccia della disputa accademica, siamo nel cuore di quel che potrà accadere di qui a un anno, siamo esattamente sul terreno che dovrà calpestare il prossimo titolare dell’economia. Nessun partito italiano ne è consapevole finora. Niente di tutto questo è entrato nemmeno da molto lontano nel dibattito elettorale. E prima che il prossimo governo se ne renda conto passeranno mesi. Il primo compito immediato, infatti, sarà quello di tappare i buchi e soprattutto trovare 15 miliardi per impedire che scatti l’aumento dell’Iva rinviato al 2019. Altro che bonus, gratifiche, flat tax o reddito di cittadinanza.

 

Il ministro delle tasse e delle spese, insomma, è un cireneo che raccoglie e porta sulle sue spalle tulle le croci che gli altri colleghi scaricano nel cortile di palazzo Sella in via XX Settembre. Ma non può ridursi a fare il contabile, questo spetta al ragioniere generale dello stato che ha a disposizione una mega struttura che copre l’intero territorio nazionale. Né può usare la gloriosa scrivania per esperimenti di teoria macroeconomica. Deve essere esperto di mercati finanziari che sono oggi i veri signori della moneta, uno che non si fa infinocchiare dal fumo delle complicate tecnicalità. Soprattuto deve conoscere bene il mondo bancario, farsi ascoltare e rispettare. Le difficoltà più gravi negli ultimi anni sono venute proprio da qui, comprese le sconfitte maggiori a Bruxelles: basti ricordare lo stop imposto alla bad bank che Padoan voleva istituire per assorbire i crediti marci delle banche italiane. Il caso Banca dell’Etruria e affini non sarebbe scoppiato, almeno non con questa virulenza. Niente sostituti come il fondo Atlante; e il Monte dei Paschi non sarebbe a carico dei contribuenti. Per questo, è emersa anche l’idea di mettere in campo un “banchiere di sistema”, che abbia idee chiare su come affrontare il debito e non si faccia intimorire. Ipotesi estrema e anomala, tuttavia potrebbe essere una risorsa nel caso si arrivasse davvero a una grande coalizione moderata basata su Pd e Forza Italia. C’è qualcuno che risponde a questo identikit? Se c’è, se ha l’animo intrepido del patriota, si faccia avanti.

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