Leo Messi contro l'Espanyol nel derby vinto dal Barcellona il 9 settembre 2017 (foto LaPresse)

Così l'indipendenza catalana è diventata un derby di calcio

Maurizio Stefanini

Il Barcellona si schiera a favore il referendum contro Madrid, l'Espanyol preferisce non mischiare sport e politica e invita al dialogo. La nuova frontiera della rivalità tra Culés e Periquitos

“In relazione alla situazione politica che vive la Catalogna, il FC Barcelona, fedele al suo impegno storico per la difesa del Paese, della democrazia, della libertà di espressione e del diritto a decidere, condanna qualsiasi azione che possa impedire l’esercizio pieno di questi diritti”. “L’Espanyol è un club coraggioso e comprendiamo che oggi essere coraggiosi significa non aumentare il conflitto nella società catalana. Crediamo che le posizioni piene di parole vuote non aiutino in ogni caso”.
E così, anche sulla indipendenza catalana a Barcellona è derby. Un derby politico, che secondo i maligni promette di essere molto più spumeggiante dei derby in campo, dal momento che negli ultimi vent’anni, l’Espanyol è riuscito a vincere solo tre volte: l’ultima nel 2009.

 

Senza confronto anche i palmarès. I Blaugrana hanno vinto 24 campionati, 29 Coppe di Spagna, 2 Coppe della Liga, 12 Supercoppe di Spagna, 4 Coppe Eva Duarte, 3 Coppe del Mondo per Club, 5 tra Coppe dei Campioni e Champions League, 4 Coppe delle Coppe, 5 Supercoppe Uefa, 1 Liga Mediterranea de Fútbol, 2 Coppe Latine, 3 Coppe delle Fiere. Il Reial Club Deportiu Espanyol de Barcelona (RCDE, “l'altro” club di Barcellona che nel suo stemma ha la corona e l’appellativo che designa un patrocinio diretto del Sovrano, come per il Real Madrid, il Real Zaragoza o la Real Sociedad), a parte trofei regionali, 4 Coppe di Spagna. Mentre in campionato, al massimo, è arrivato terzo nel 1933, 1967, 1973 e 1987. Anche per questo, per il Barcellona, la grande sfida storica è sempre stata quella con il Real Madrid, “El Clásico”, piuttosto che il “Derbi barceloní”, il cui bilancio a sfavore dell’Espanyol è schiacciante: 97 vittorie a 34 e 36 pareggi, con 318 goal fatti e appena 175 subiti (l'ultimo, lo scorso 9 settembre, si è concluso 5 a 0 per Messi & Co.).

 

 

“Culés” vengono tradizionalmente chiamati i tifosi del Barcellona. Un fisicissimo “culi” legato ai primi ‘900 quando le tribune dello stadio mostravano alla gente in strada gli spettatori come una massa di sederi. Quelli dell’Espanyol sono invece i “Periquitos”: letteralmente “Perrocchetti”, nome che deriva dal “Gat Perico”, appellativo catalano del Gatto Felix, famoso fumetto degli anni ’20, e riferimento alla malignità secondo cui i sostenitori dell’Espanyol non erano che “quattro gatti”.

I Culés in effetti sono molti di più. Almeno uno spagnolo su quattro tifa Barcellona e nel 2010 uno studio tedesco calcolò che i Blaugrana erano la squadra con più sostenitori in Europa: 57,8 milioni, contro i 31,3 del Real Madrid, i 30,6 del Manchester United, i 22,9 del Chelsea e i 20,7 del Bayern. Una recente statistica ha dimostrato che a Barcellona tra gli appassionati di calcio i Culés sono il 77,5 per cento del totale, contro il 10,4 di tifosi del Real Madrid e appena il 3,6 per cento di Periquitos.

 

Eppure, questa piccola nicchia resiste. Durante la dittatura, con l’autonomia regionale abolita, i partiti catalani sciolti e l’uso pubblico del catalano vietato, era rimasto il Barcelona l’unica bandiera cui aggrapparsi. Per questo veniva considerato “més que un club”, più di un club (frase pronunciata nel 1968 al momento del suo insediamento dal presidente Narcís de Carreras i Guiteras - in gioventù esponente del partito autonomista moderato della Lliga Regionalista de Catalunya - e tuttora motto della squadra). Quando nel 1953 fu ripristinata anche la possibilità di scegliere i dirigenti in modo autonomo, l’elezione del presidente a suffragio diretto di tutti i soci rimase per un quarto di secolo l’unico spazio di democrazia di tutta la Spagna franchista. Insomma, per dirla con Manuel Vázquez Montalbán, il Barcellona è stato “l’esercito disarmato della Catalogna”.

 

L’Español invece richiama, nel nome stesso, la detestata Spagna. Anche se dal 1995 è stato tradotto nel catalano Espanyol. In questa chiave, i “quattro gatti” erano visti come una sorta di cavallo di Troia degli immigrati e funzionari venuti a Barcellona dal resto della Spagna. Ma è un po’ un gioco degli specchi. In realtà l’Espanyol deve il suo nome, scelto nel 1900, non alla volontà di opporsi all’autonomismo, ma perché schierava solo giocatori indigeni, mentre il Barcelona era stato fondato da uno svizzero ed era pieno di giocatori stranieri. Da Cruijff a Messi, questa affezione per i campioni venuti da fuori è rimasta. I Culés la giustificano dicendo che è servita a resistere alle prepotenze di Madrid. Ma a quel punto sono i Periquitos a replicare che sono loro i tifosi più valorosi del mondo, capaci di resistere allo strapotere del tifo blaugrana. Appunto a questo “coraggio” ha fatto riferimento il comunicato con cui l’Espanyol ha preso le distanze dalle posizioni pro-indipendenza di tutte le altre principali squadre della Generalitat. “Crediamo che il #RCDE e lo sport debbano essere tenuti fuori dai vcambiamenti politico-sociali. Siamo attenti e preoccupati per quello che sta accadendo alla nostra amata terra, auspichiamo che tutto venga risolto con il dialogo e la responsabilità di tutti”. E forse il coraggio più grande e che queste cose le dicono in catalano.