In Italia, innovare stanca. Il caso del codice a barre e del kalashnikov

Marco Valerio Lo Prete
Le strade dell’innovazione sono infinite, tutt’altro che scontate e per fortuna ancora più numerose di quante possano essere le occasioni in cui ci riuniamo a parlarne durante convegni inutili. Storie e insegnamenti da un libro di Massimiano Bucchi, "Per un pugno di idee"

Dopo una pausa estiva, come ogni lunedì torna su Radio Radicale la mia rubrica del lunedì mattina, "Oikonomia". Qui potete ascoltare l'audio (dura solo 5 minuti), di seguito invece il testo con i link.

 

"Se le statistiche internazionali su ricerca e innovazione tenessero conto del numero di manifestazioni e convegni organizzati su questi argomenti, non c’è dubbio: come Italia non saremmo secondi a nessuno”. Inizia con questa considerazione l’ultimo pamphlet sull’innovazione di Massimiano Bucchi, professore di Scienza, tecnologia e società all’Università di Trento, intitolato “Per un pugno di idee” e pubblicato da Bompiani. Nel quale si affianca in maniera provocatoria la fiorente retorica su app, venture capital, start-up, eccetera, agli indicatori statistici più freddi che descrivono un paese, il nostro, debole negli investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle aziende (0,7 per cento del pil contro una media Ue dell’1,2 per cento), con tre italiani su dieci da considerarsi “tecnoesclusi”, ovvero completamente tagliati fuori dalle tecnologie digitali a eccezione del telefono cellulare: trentaquattro su cento non hanno mai usato internet né un computer. Può la nostra economia non risentire di tutto ciò? Per Bucchi il discorso pubblico italiano sull’innovazione diverrebbe più corrispondente alla realtà economica se iniziasse a riconoscere che “l’innovazione è un processo complesso e non lineare, in cui entrano in gioco numerosi elementi, processi e attori sociali”, e se inoltre tenesse conto che “innovazione è qualcosa di più e di diverso da ‘nuova tecnologia’”, e in molti degli esempi ricostruiti nel libro “l’elemento tecnologico è solo un aspetto del cambiamento, e spesso nemmeno il più importante”.

 

La nascita del codice a barre, alle metà degli anni 70, ci ricorda per esempio che per innovare, in economia, non è necessario essere inventori. Il responsabile di una catena di supermercati, Alan Haberman, pensava da tempo a come ridurre le lunghe code che si formavano alle casse dei suoi negozi. Così scoprì che due studenti di Philadelphia, Norman Woodland e Bernard Silver, avevano brevettato nel 1952 un sistema che utilizzava una sorta di codice Morse per identificare i prodotti e pensò che quel sistema potesse fare al caso suo. Nonostante il costo e l’affidabilità dei sistemi di scansione fossero stati a lungo un problema, Haberman ebbe soprattutto il merito di intuire l’importanza di standard e linguaggi comuni in uno scenario globale, anni prima che ciò diventasse ovvio con la diffusione delle tecnologie digitali, e riuscì a trascinare i suoi colleghi quando questi si misero a ragionare su uno standard, “una sorta di impronta, in un esperanto che andasse bene per tutti”. La commissione formata al tempo, ricorda Bucchi, scartò un design a macchie multicolori e uno a occhio di bue, optando alla fine per un modello sobrio e di facile lettura, a barre verticali bianche e nere, sviluppato presso la Ibm sulla base dell’idea originale di Woodland e Silver (nel frattempo, il loro brevetto era scaduto e Silver defunto). Il modello fu denominato con la sigla UPC, Universal product code. Così, alle otto di mattina del 26 giugno 1974, in un supermercato dell’Ohio, un pacchetto di gomme da masticare Wrigley fu passato su un lettore ottico e riconosciuto correttamente attraverso il codice a barre, presentando un conto di 67 centesimi di dollaro. Oggi si stima che ogni giorno la stessa operazione sia ripetuta su oltre cinque miliardi di prodotti nei negozi di tutto il mondo. Non solo: i codici a barre sono usati per le carte d’imbarco nel trasporto aereo, per tracciare le spedizioni e perfino in alcuni reparti ospedalieri di maternità, per essere sicuri di abbinare correttamente neonato e neomamma. La storia di Haberman, l’uomo dei supermercati che voleva ridurre a tutti i costi le code alla cassa dei clienti, laureato a Harvard in Storia e Letteratura, secondo Bucchi “è un classico esempio di come si possa essere un innovatore senza essere un inventore”.

 

Un altro innovatore poco ortodosso fu Michail Kalasnikov, soldato dell’Armata Rossa che inventò l’Avtomat Kalashnikova 47, cioè l’AK-47 ancora oggi fortemente letale e tristemente noto. Michail Kalasnikov era un contadino con la passione per la poesia e la meccanica, deportato in Siberia prima della Seconda guerra mondiale durante la quale si fa assegnare al centro dell’esercito sovietico dove si sviluppano nuove armi. Nel 1941 era stato ferito a una spalla nella battaglia di Brjansk, nella quale morirono ottantamila russi, e durante la sua degenza ebbe modo di ascoltare e riascoltare le lamentele dei commilitoni sulle armi d’assalto sovietiche, per varie ragioni inferiori a quelle dei tedeschi. Michail, sfruttando un concorso interno all’esercito, propose quindi un’arma semplice da usare, compatta, economica, facile da pulire perché smontabile in 18 secondi, resistente alle condizioni più estreme e comunque letale perché in grado di sparare 600 colpi al minuto. Il kalashnikov, conclude Bucchi in una delle sue concise ma efficaci ricostruzioni, è un esempio di quella che si chiama “user-driven innovation”, un’innovazione sviluppata dagli utilizzatori per gli utilizzatori.

 

Un’ennesima dimostrazione che le strade dell’innovazione sono infinite, tutt’altro che scontate e per fortuna ancora più numerose di quante possano essere le occasioni in cui ci riuniamo a parlarne durante poco utili convegni.

Di più su questi argomenti: