Quello che il tasso di disoccupazione non dice. La lezione di Bastiat

Marco Valerio Lo Prete

Oggi è andata in onda su Radio Radicale "Oikonomìa, alle radici del dibattito economico contemporaneo", mini rubrica in pillole. Di seguito il testo della puntata, qui invece l'audio (dura soltanto 5 minuti!). Sono ben accetti idee, consigli e critiche (scrivere a [email protected]).

    Oggi è andata in onda su Radio Radicale "Oikonomìa, alle radici del dibattito economico contemporaneo", mini rubrica in pillole. Di seguito il testo della puntata, qui invece l'audio (dura soltanto 5 minuti!). Sono ben accetti idee, consigli e critiche (scrivere a [email protected])

     

    Tim Harford, economista e giornalista del Financial Times, nel suo libro e bestseller “L’economista mascherato colpisce ancora”, pubblicato negli Stati Uniti nel 2014, offriva una definizione di “macroeconomia” traendo spunto da alcuni scritti di Frédéric Bastiat. Il celebre economista francese nel 1850 scrisse un pamphlet intitolato “Quello che si vede e quello che non si vede”, nel quale si leggeva tra l’altro: “Nella sfera economica, un atto, un’abitudine, un’istituzione, una norma, non producono soltanto un effetto, ma una serie di effetti. Di questi effetti, soltanto il primo è immediato e appare contemporaneamente alla sua causa, ed è visto. Gli altri effetti emergono solo successivamente, non sono visti e saremmo fortunati a prevederli”. Seguiva quello che poi è diventato uno degli aneddoti più famosi in ambito economico. Secondo la parabola della “finestra rotta”, il vetraio chiamato per sostituire la finestra, in cuor suo, benedice il bambino sbadato che l’ha rotta: grazie a lui otterrà un inatteso guadagno. E’ la società tutta a doversi rallegrare, dunque, per gli effetti dell’incidente? No, replica Bastiat: quel che non vediamo, infatti, è che i soldi spesi dal padre del bambino per riparare la finestra potevano essere spesi in altro modo, arricchendo il calzolaio o il libraio. L’incidente però ha impedito tutto ciò. Storicamente sono state molteplici le riflessioni su questo aneddoto, ma Harford nel suo bestseller lo cita per sottolineare un fatto: ogni volta che indichiamo qualcosa di ovvio che sta accadendo sotto i nostri occhi, allo stesso tempo c’è sempre qualcosa che ci accade anche alle spalle e che potrebbe esservi collegato. La macroeconomia serve proprio a studiare queste connessioni invisibili dal punto di vista economico.

     

    Tale riflessione si rivela utile, per esempio, per leggere in maniera più ponderata alcuni dati pubblicati la scorsa settimana a proposito del mercato del lavoro di Italia e Stati Uniti. La situazione italiana, a dire il vero, è sconfortante un po’ sotto tutti i punti di vista. Il dato più enfatizzato dai media è ovviamente il tasso di disoccupazione, cioè il rapporto tra il numero dei disoccupati e la forza lavoro (che è la somma di occupati e disoccupati); nel nostro paese ha raggiunto a novembre il 13,4%. Un dato, quello del tasso di disoccupazione, peggiore della media dell’Eurozona: 13,4% a fronte l’11,5% nei Paesi della moneta unica. Quel che è più grave è che il tasso di disoccupazione italiano continua a muoversi in direzione opposta a quello dell’Eurozona: oggi il tasso di disoccupazione dell’Eurozona è di 0,4 punti percentuali più basso di un anno fa; invece il tasso di disoccupazione italiana è di 0,9 punti percentuali più alto. Il tasso di disoccupazione in Germania, per fare un esempio, a dicembre si è attestato al 6,5%, cioè il minimo storico dalla riunificazione delle due Germanie nel 1990 e meno della metà che in Italia.

     

    Tuttavia c’è un ulteriore aspetto allarmante a proposito del nostro paese, il cosiddetto “tasso di occupazione”: questo indicatore, che misura l’incidenza degli occupati sul totale della popolazione in età lavorativa, è pari al 55,5 per cento, uguale allo scorso anno ma ancora molto basso. L’Eurostat, per consentire paragoni tra Paesi diversi, calcola il tasso di occupazione nella fascia d’età 20-64 anni, che si ottiene dividendo il numero di persone che lavorano tra i 20 e i 64 anni per il numero di persone totale di questa fascia d’età. Dai dati Eurostat emerge che appena 6 italiani su 10 di un’età compresa tra i 20 e i 64 anni lavorano; nella stessa fascia d’età lavorano 7 francesi su 10 e quasi 8 tedeschi su 10.

     

    La scorsa settimana, infine, sono state rese note anche le statistiche sul lavoro negli Stati Uniti. Si tratta di dati straordinari se comparati a quelli europei: a dicembre il tasso di disoccupazione americano è arrivato al 5,6%, la metà di quello dell’Eurozona e al livello più basso dalla metà del 2008. Pure dall’altra parte dell’Atlantico, però, c’è un aspetto negativo che i macroeconomisti non dimenticano di considerare. Negli Stati Uniti rimane infatti a livelli bassissimi, per gli standard locali, il tasso di partecipazione alla forza lavoro, cioè il rapporto tra la forza lavoro – che ricordiamo è la somma degli occupati e di quei disoccupati che comunque cercano lavoro – e il totale della popolazione in età lavorativa. Il tasso di partecipazione alla forza lavoro è fermo da un anno attorno al 62,7%. Nel dicembre 2007, quando iniziò la recessione, il tasso di partecipazione alla forza lavoro era al 66%. Mentre dunque il tasso di disoccupazione è tornato ai livelli pre crisi, il mercato del lavoro americano non è più quello di allora. E’ addirittura dal 1978 che non si vedeva infatti una “partecipazione” al mercato del lavoro così bassa.

     

    Secondo gli economisti americani, occorre tenere conto di fattori non solo congiunturali. Da una parte c’è il fatto che alcuni di quanti sono stati sospinti improvvisamente fuori dal mercato del lavoro per colpa della crisi potrebbero aver deciso di andare avanti con mezzi di fortuna, appoggiandosi a famiglia, amici e welfare, e oggi non hanno sufficienti incentivi per tornare a cercare lavoro. D’altra parte poi, dalla metà degli anni 2000, milioni di baby-boomers, cioè gli americani nati nella generazione successiva alla Seconda Guerra mondiale, hanno cominciato a superare i 60 anni e ad andare in pensione. Solo il 18% degli over 65 oggi continua a lavorare. Ci sono dunque anche ragioni demografiche dietro la scarsa “partecipazione” al mercato del lavoro americano. E i macroeconomisti, ricordando la lezione della “finestra rotta” di Bastiat, già cercano di capire cosa tutto questo vorrà dire in termini di crescita futura ed equilibri fiscali.

     

    Qui le puntate precedenti di "Oikonomia":
     

    Le mosse anti deflazione di Draghi nelle intuizioni di Irving Fisher

     

    Ernesto Rossi, la governante di Calamandrei e l'Articolo 18

     

    Joseph Stiglitz, il sovraffollamento delle carceri e il profitto "costituzionale"

     

    L'Europa, l'economia sociale di mercato che piace a Merkel e qualche aporìa

     

    La concertazione, questione di (scarsa) competitività e democrazia, dice il Nobel Phelps

     

    Henry Ford, la contrattazione aziendale e il modello tedesco di "produttività"

     

    La Legge di Wagner e l'idea pazza che le Regioni non possano ridurre la spesa

     

    Non è questione di decimali. Tocqueville e la crisi dell'euro vista dall'America

     

    La premonizione "giapponese" di Bernanke e l'arma del Quantitative easing

     

    Tutti quei balzelli sui risparmi nella Legge di stabilità e la "repressione finanziaria"

     

    Renzi, quel problemino chiamato "recessione" e il pressing del G20

     

    Ecco come Renzi ha convinto l'Europa (c'entra "l'illusione finanziaria")

     

    Le liberalizzazioni convengono. Parola di Cesare Beccaria

     

    La Terra di Mezzo e la Public choice all'amatriciana

     

    L'euro in preda a una nuova crisi di fiducia. Memento Karl Otto Pöhl

     

    Il "soft power" americano, tra successi cubani e fallimenti al Fmi

     

    Siamo tutti statali a nostra insaputa. Reagan e il Jobs Act