La fine del laissez-faire? Keynes la sancì nel 1926

Marco Valerio Lo Prete

Riflessioni sui liberali e i liberisti che (scantonando un po' dall'ortodossia) abbracciano proposte un po' interventiste. Parla Pellicani (continua)

    “Ho abbandonato i principi del libero mercato per salvare il sistema del libero mercato”. Parola di presidente degli Stati Uniti d'America, del repubblicano George W. Bush per la precisione. La frase, pronunciata alla fine del 2008 con aria malinconica durante un'intervista alla Cnn, servì a giustificare il programma di aiuti pubblici federali al settore finanziario (Troubled Asset Relief Program, Tarp) e soprattutto il sostegno al comparto automobilistico di Detroit. Larry Kudlow, giornalista economico di Cnbc ed ex consigliere del presidente Ronald Reagan, sentenziò ironico: “Ora il contribuente americano ha una casa automobilistica, General Motors. E Barack Obama presiederà il suo prossimo Cda”. Un “free-market guy” come Bush – l'autodefinizione è sua – seduto sulla poltrona presidenziale più importante del pianeta, indotto dalla crisi a cedere alle lusinghe dell'interventismo statale. E dall'estate 2007 a oggi non è stato il solo.

    La scorsa settimana, a oltre un anno dall'aggravarsi definitivo della crisi europea dei debiti sovrani, sulla prima pagina del confindustriale Sole 24 Ore un altro riconoscimento pesante: “Bisogna ammettere che abbiamo sbagliato”. A scriverlo è stato Guido Tabellini, economista liberale e rettore dell'Università Bocconi, ovvero l'ateneo privato milanese che vanta più laureati all'interno dell'attuale governo tecnico italiano, a partire dal premier, Mario Monti. L'errore, secondo Tabellini, è quello di aver costruito un'unione monetaria a immagine e somiglianza del rigoroso marco tedesco, dimenticando di europeizzare anche la supervisione bancaria e soprattutto di trasformare la Banca centrale europea in prestatore di ultima istanza per gli stati. Ovvero dimenticando di fare quanto invece prescrive da mesi il premio Nobel per l'Economia Paul Krugman, editorialista liberal del già piuttosto liberal New York Times. Cosa succede? Forse che i liberisti, assaliti dall'emergenza, sono costretti a spingersi nelle braccia di soluzioni stataliste, keynesiane o neokeynesiane che siano?

    Luciano Pellicani, professore di Sociologia e studioso del capitalismo, suggerisce cautela nel tracciare una linea netta, ma poi individua una sicura tendenza intellettuale: “Da 100 anni la storia economica e del pensiero economico procede come un pendolo. Nel 1926, ‘Fine del laissez-faire' era il titolo di un pamphlet di John Maynard Keynes – ricorda in una conversazione con il Foglio – poi però l'austerity degli anni 70 indotta dalla crisi del petrolio, l'elezione in Inghilterra di Margaret Thatcher, con le sue tesi apertamente riprese dall'economista Hayek, e l'elezione di Ronald Reagan portarono il pendolo a spostarsi verso una riduzione del ruolo dello stato nell'economia. Ora lo stesso pendolo si sta riposizionando verso quello che possiamo definire neokeynesismo”. A farla pensare così all'ex direttore di Mondoperaio e ora docente della Luiss non sono soltanto le letture degli ultimi giorni, tra le quali per esempio l'editoriale di due liberisti a tutto tondo come Alberto Alesina (Harvard) e Francesco Giavazzi (Bocconi) che dopo settimane passate a insistere sulla necessità di liberalizzare-per-crescere ammettono che forse, vista l'emergenza paneuropea, un intervento della Bce in stile Krugman potrebbe servire: “Vorrei partire da alcune date – spiega Pellicani – 1999, quando il finanziere e popperiano George Soros criticò apertamente il fondamentalismo di mercato. 2008, quando l'ex governatore della Fed, Alan Greenspan, fu invitato dal Congresso americano a dire la sua sulle ragioni della crisi e ammise l'esistenza di ‘una falla' alle radici dell'ideologia del libero mercato che lo aveva animato. Lo stesso anno gli stati sono intervenuti per salvare le banche private”. Secondo Pellicani, la radice di tutto risiede nel fatto che tanto gli americani quanto gli europei sono arrivati a “consumare più di quanto producono, pur vivendo già – proprio grazie al capitalismo – nelle società più opulente che siano mai esistite”. Così, se “negli anni 70 il keynesismo fu accusato di aver drogato l'economia con il deficit spending e – si diceva – agli effetti allucinogeni della droga c'è un limite, oggi lo stesso vale per l'eccesso di consumi”. Questa comune sorte delle due sponde dell'Atlantico, però, non cancella altre differenze: “Mentre gli americani dovranno intervenire per limitare il loro laissez-faire, come dicono perfino liberali conservatori come Edward Luttwak, gli Europei dovranno comunque riformare uno stato sociale inefficiente. Quando c'è un'intossicazione, magari ideologica, la regola è quella di praticare per un po' il regime alimentare, o teorico, opposto”.

    Qui l'articolo in versione integrale, apparso oggi sul Foglio di carta

    * "La stessa ricetta", vignetta satirica di David Manrique. Grazie a Flickr e soprattutto a coliño