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Il festival

Bei film al Sundance, che non è l'ennesima passerella tra folla e fotografi

Mariarosa Mancuso

Quest’anno il festival cinematografico era come dovrebbe essere. Film interessanti, storie personali, case stregate e grandi affari (nonostante qualcuno sostenga il contrario)

Né lo sciopero né la minaccia dell’intelligenza artificiale sembrano aver turbato il Sundance Film Festival, voluto dal fondatore Robert Redford lassù nelle montagne dello Utah. Era il 1981. Parlando di cinema, un’eternità. A Venezia debuttava Emir Kusturica con “Ti ricordi di Dolly Bell?”. Agli Oscar trionfò il molto deprimente “Gente comune”– genere “This is Us”, lo spettatore attende la disgrazia che verrà – diretto manco a dirlo da Robert Redford. 

Quest’anno il Sundance era come dovrebbe essere, garantisce Vulture. Non date retta a chi fa notare che non si son fatti grandi affari. Colpa delle circostanze incerte e confuse che riguardano la distribuzione: prima di spendere si riflette più del solito. Ma gli investimenti si fanno: per esempio l’assegno da 17 milioni di dollari staccato da Netflix per “It’s What’s Inside”, diretto da Greg Jardin. Cosa c’è dentro la valigia che un ospite misterioso porta in una villa isolata dove è in corso una festa di nozze? Contiene un gioco, dice l’amico che nessuno da tempo vedeva. Qualcosa che nessuno ha mai visto e con cui bisogna giocare, senza lasciar trapelare nulla fuori dalla magione. Non c’è da star tranquilli, anche se potrebbero fare lo stesso effetto i cellulari scambiati in “Perfetti sconosciuti”.
   

C’erano film interessanti, nello spirito del Sundance. Non l’ennesima passerella tra folla e fotografi (le star avevano capito che diversificare, recitando in un film indipendente, apriva interessanti possibilità – chissà se lo terranno a mente, ora che i grandi set riaprono). Per 10 milioni di dollari, Searchlight – ora fa parte della Disney, era nata come divisione della 20th Century Fox dedicata ai film di nicchia – ha comprato il secondo film di Jesse Eisenberg, “A Real Pain”. Il primo era intitolato “When You Finish Saving the World”: satira (con un tocco autobiografico) rivolta alle mamme che si occupano dei ragazzini poveri e non del proprio rampollo. “A Real Pain” racconta il viaggio suo e di Kieran Culkin (da “Succession”) nella Polonia di oggi. Sono cugini, viaggiano sulle tracce della nonna – come in “Ogni cosa è illuminata” di Jonathan Safran Foer, con il suo traduttore che sbagliava le frasi fatte – e coltivano una certa rivalità. “Una storia molto personale”, dice il regista, felice di aver trovato un’ottima distribuzione.

Al Sundance c’era anche Steven Soderbergh, con il film intitolato “Presence”. La storia di una casa stregata, raccontata e filmata dal punto di vista degli spiriti. Un esperimento, scrive Benjamin Lee sul Guardian. Abbastanza astuto da spaventare parte dell’eletto pubblico, che andando spesso al cinema dovrebbe conoscere tutti i trucchi e in contro-trucchi (per esempio: quando c’è un rumore sinistro nell’armadio, lo apri ed è solo il gatto che si struscia sui maglioni: allora tiri un bel sospiro, e la minaccia – maniaco, mostro, fantasma giapponese con i capelli unti –  è proprio dietro di te).


Tra i film più originali – tralasciando i padri e i figli o le figlie che si rivedono dopo anni – c’è “Ibelin” di Benjamin Ree. Racconta, in tre tempi e lavorando sui dettagli, la storia di Mats Steen, ragazzo inglese colpito da distrofia muscolare e morto a 25 anni. I genitori non sospettavano che mentre per ore giocava ai videogiochi, nel seminterrato della sua casa a Oslo, si era fatto molti amici, si era innamorato, era stato d’esempio per i suoi coetanei. Ibelin Redmoore era il nome scelto per suo avatar. Sorprendente anche “Thelma” di Josh Margolin. Con June Squibb, di anni 94: è stata truffata su internet, le hanno portato via 10 mila dollari, e farà di tutto per riprenderseli. 
 

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